L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il flauto c'è ma non si vede

di Alberto Ponti

La ripresa di Die Zauberflöte al Regio si caratterizza per un originale allestimento destinato a far discutere. Buona nell'insieme la compagnia di canto, amalgamata dall'impetuosa bacchetta di Sesto Quatrini.

Massimo risultato con il minimo sforzo. Potrebbe così riassumersi questa edizione 2023 del capolavoro mozartiano al Teatro Regio nell'allestimento, nuovo per gli spettatori torinesi, proveniente dalla Komische Oper con la regia di Suzanne Andrade e Barrie Kosky, ripresa da Tobias Ribitzki. L'azione è trasportata nella capitale tedesca dei ruggenti anni tra le due guerre mondiali quando Berlino, a scapito dell'instabilità del periodo e dei rivolgimenti politici, era una delle città culturalmente più all'avanguardia del mondo. I bei costumi firmati da Esther Bialas sembrano infatti appena usciti da una pellicola di Fritz Lang. La scenografia è di una semplicità estrema e quasi inesistente, priva di profondità, consistendo in una parete a tutta altezza incombente sulla parte anteriore del palcoscenico con uno spazio non ampio tra essa e la buca dove si muovono coro e cantanti. Nella parete, ruotando su assi centrali che ne consentono apertura e chiusura, sono praticati alcuni passaggi: uno a pianterreno e tre a livello superiore da cui si affacciano di volta in volta i personaggi chiave, con un effetto di sospensione anche fisica che accentua il carattere fiabesco dell'opera. La sensazione di tridimensionalità, di spessore drammatico, e qui risiede la principale novità che fa di questa messinscena un evento a sé, è demandata per intero a proiezioni sulla parete, a metà strada tra un cartone animato in 3d e filmati cinematografici che richiamano ancora una volta la già evocata temperie espressionista. Il gusto, la sensibilità e il segno grafico, e non poteva essere altrimenti, sono molto tedeschi, un po' distanti dalla nostra sensibilità, ma costituiscono un indubbio stimolo culturale. L'altra grande novità è l'eliminazione totale dei recitati, sostituiti con ulteriori proiezioni del testo parlato accompagnati da frammenti di pagine pianistiche mozartiane (su tutte la Fantasia in do minore K 475). Il risultato è un indubbio snellimento dell'azione, priva dei tempi morti tra un numero e l'altro, ridotti in tal modo al minimo indispensabile, con i cantanti a svolgere l'inedito ruolo di mimi, altro omaggio al cabaret berlinese e all'epoca d'oro del muto. La suggestione delle animazioni, ideate da Paul Barritt e dall'ensemble '1927', e il primo piano che le stesse assumono nell'economia della spettacolo implica di necessità alcune scelte arbitrarie, prima fra tutte il flauto e il glockenspiel fatato di Tamino e Papageno che si odono in orchestra ma non sono presenti in scena. In secondo luogo, la soppressione del parlato penalizza le capacità attoriali dei protagonisti, relegati a eseguire le parti cantate e spesso limitati nei movimenti, vuoi perché vincolati da posizioni fisse per interagire con l'animazione (anche se con taluni effetti ora delicati ora gustosi, come quando compaiono al loro fianco gatti, elefanti, ragni e varie creature fantastiche), vuoi perché quando si affacciano dalla zona superiore della parete, in apparenza sospesi a mezz'aria, si trovano imbragati per ovvi motivi di sicurezza da corde invisibili che ricordano quelle dei lavavetri professionisti.

Dal punto di vista musicale, l'operazione è condotta in porto dalla bacchetta effervescente, a tratti addirittura irruenta, di Sesto Quatrini. Die Zauberflöte è un'opera di estrema raffinatezza nella scrittura dove, sotto l'ala in superficie innocua del genere popolare del Singspiel, vengono toccati tutti i registri, dal patetico all'eroico, dal drammatico allo scherzoso, in una summa sbalorditiva di sapere compositivo. Al direttore non sfuggono le ramificate sottigliezze mozartiane, e l'orchestra del Teatro Regio fa il suo dovere con una prova di ottimo livello, ma nel risultato latita un poco la dimensione metafisica, fiabesca che è lato non trascurabile non solo del libretto di Schikaneder, declinato sul versante visivo fin troppo alla lettera da Kosky & C., ma anche delle note di Mozart. I tempi sono serrati, eccellente è la scansione ritmica e dinamica della celebre ouverture in stile contrappuntistico, con tutte le voci nel giusto rilievo, ma il triplice accordo di Sarastro, che ritorna dopo la breve introduzione, a metà del pezzo suona più smarrito che autorevole. Viceversa, per limitarci a un solo esempio, nel complesso arioso di Tamino all'interno del finale primo, 'Die Weisheitlehre dieser Knaben', il direttore romano dimostra una sensibilità teatrale intensa e toccante. Il pregio di Quatrini è tener testa a una compagnia di canto assai eterogenea, in un lavoro che accanto ai caratteri principali ne prevede una grande varietà di secondari in una sorta di record per il Settecento, con anime molto differenti al proprio interno.

Su tutti emerge la Pamina di Ekaterina Bakanova che, dopo il forfait delle prime recite, appare in condizione smagliante nelle ultime, guadagnandosi applausi a scena aperta in più di un'occasione. Voce piena e rotonda, agile in ogni registro, il soprano slavo risulta convincente e credibile per sicurezza di intonazione e densità emotiva nell'aria del secondo atto e nei numerosi passaggi d'insieme, svettando spesso sopra i compagni di palcoscenico. Di maggior ombrosità e dotato di minor mordente è il Tamino interpretato dal tenore Joel Prieto, di buona presenza per quanto consentito dall'originale regia ma talvolta sottotono e poco incisivo, sopratutto nei momenti di canto collettivo, quando la complessa tessitura vocale mozartiana tocca il massimo della ricercatezza con mèlange che richiede molto carattere a tutti i chiamati in causa. A suo encomio va comunque riconosciuta una buona padronanza stilistica nell'aria di esordio del primo atto (la celebre 'aria del ritratto') e nel sopracitato esteso arioso. Considerazioni simili valgono per Alessio Arduini, baritono nella parte di Papageno, sacrificato dal lato attoriale e privato non per sua volontà di tutti gli effetti comici che costituiscono il lato non secondario del ruolo. Rimane così solo il versante squisitamente vocale, corretto e ben a fuoco anche nelle puntate verso l'acuto nelle due arie e nel duetto con Papagena, che, ai punti, rendono la sua una prestazione da pollice alzato. Molto attesa, come sempre, è la figura di Astrifiammante, la Regina della Notte, con il genio di Mozart capace di trasformare i suoi dodici minuti scarsi di apparizione in due tra i momenti clou, dal punto di vista musicale, di tutta la storia dell'opera. Serena Sáenz si conferma all'altezza dei vertiginosi picchiettati e dei virtuosismi di agilità da autentico soprano di coloratura con una voce non potentissima ma ben soppesata nell'intera estensione, dando l'impressione di arrivare al livello sovracuto senza particolare sforzo e difficoltà. Intensa ed emozionante, l'aria di Sarastro del secondo atto è applaudita dalla sala per la nobiltà di espressione e di accento infusa dal dal basso In-Sung Sim. Contribuisce alla riuscita dello spettacolo il folto gruppo di comprimari, molti dei quali artisti del Regio Ensemble: Papagena (Amélie Hois, soprano) dalla memorabile comparsa nel finale, le tre dame (Lucrezia Drei, soprano, Ksenia Chubunova e Margherita Sala, mezzosoprani), il moro Monostatos (Thomas Cilluffo, tenore), i tre fanciulli (voci bianche di Viola Contartese, Alice Gossa e Isabel Marta Sodano), il primo armigero (Enzo Peroni, tenore) e il secondo armigero (Rocco Lia, basso). Un plauso speciale, infine, allo splendido Coro del Teatro Regio e al suo maestro Andrea Secchi, che si confermano di recita in recita tra le migliori realtà italiane del settore.

La sala gremita ed entusiasta tributa al termine ovazioni a tutti i protagonisti.

Questa messinscena de Il flauto magico aveva il sapore di una scommessa, per l'approccio anticonvenzionale ed innovativo. Molte sono state le discussioni intorno ad essa, orecchiate tra gli spettatori nel corso della serata e confermate dalla lettura di altri articoli e recensioni, come è normale che accada. Alcuni potranno storcere il naso, altri lasciarsi prendere dall'entusiasmo, per convinzione intima o partito preso, oppure per l'inestricabile groviglio di molteplici fattori personali e ambientali. Resta il fatto che tanto fervore intorno a un titolo che vive soprattutto di segni lasciati sulla carta oltre 230 anni fa, ne conferma l'intrinseca vitalità, senza la quale ogni spettacolare cornice sarebbe ben poca cosa. É questa la lezione di ciò che, rimasto, è destinato a rimanere: fuggire la tempestività per essere senza tempo.

<h1>Il flauto c'è ma non si vede</h1> <p>di Alberto Ponti</p> <hr id="system-readmore" /> <p><strong>La ripresa di&nbsp;<em>Die Zauberfl</em><em>ö</em><em>te </em>al Regio si caratterizza per un originale allestimento destinato a far discutere. Buona nell'insieme la compagnia di canto, amalgamata dall'impetuosa bacchetta di Sesto Quatrini.</strong></p> <p>Massimo risultato con il minimo sforzo. Potrebbe così riassumersi questa edizione 2023 del capolavoro mozartiano al Teatro Regio nell'allestimento, nuovo per gli spettatori torinesi, proveniente dalla Komische Oper con la regia di Suzanne Andrade e Barrie Kosky, ripresa da Tobias Ribitzki. L'azione è trasportata nella capitale tedesca dei ruggenti anni tra le due guerre mondiali quando Berlino, a scapito dell'instabilità del periodo e dei rivolgimenti politici, era una delle città culturalmente più all'avanguardia del mondo. I bei costumi firmati da Esther Bialas sembrano infatti appena usciti da una pellicola di Fritz Lang. La scenografia è di una semplicità estrema e quasi inesistente, priva di profondità, consistendo in una parete a tutta altezza incombente sulla parte anteriore del palcoscenico con uno spazio non ampio tra essa e la buca dove si muovono coro e cantanti. Nella parete, ruotando su assi centrali che ne consentono apertura e chiusura, sono praticati alcuni passaggi: uno a pianterreno e tre a livello superiore da cui si affacciano di volta in volta i personaggi chiave, con un effetto di sospensione anche fisica che accentua il carattere fiabesco dell'opera. La sensazione di tridimensionalità, di spessore drammatico, e qui risiede la principale novità che fa di questa messinscena un evento a sé, è demandata per intero a proiezioni sulla parete, a metà strada tra un cartone animato in 3d e filmati cinematografici che richiamano ancora una volta la già evocata temperie espressionista. Il gusto, la sensibilità e il segno grafico, e non poteva essere altrimenti, sono molto tedeschi, un po' distanti dalla nostra sensibilità, ma costituiscono un indubbio stimolo culturale. L'altra grande novità è l'eliminazione totale dei recitativi secchi, sostituiti con ulteriori proiezioni del testo parlato accompagnati da frammenti di pagine pianistiche mozartiane (su tutte la Fantasia in do minore K 475). Il risultato è un indubbio snellimento dell'azione, priva dei tempi morti tra un numero e l'altro, ridotti in tal modo al minimo indispensabile, con i cantanti a svolgere l'inedito ruolo di mimi, altro omaggio al cabaret berlinese e all'epoca d'oro del muto. La suggestione delle animazioni, ideate da Paul Barritt e dall'ensemble '1927', e il primo piano che le stesse assumono nell'economia della spettacolo implica di necessità alcune scelte arbitrarie, prima fra tutte il flauto e il <em>glockenspiel </em>fatato di Tamino e Papageno che si odono in orchestra ma non sono presenti in scena. In secondo luogo, la soppressione del parlato penalizza le capacità attoriali dei protagonisti principali, relegati a eseguire le parti cantate e spesso limitati nei movimenti, vuoi perché vincolati da posizioni fisse per interagire con l'animazione (anche se con taluni effetti ora delicati ora gustosi, come quando compaiono al loro fianco gatti, elefanti, ragni e varie creature fantastiche), vuoi perché quando si affacciano dalla zona superiore della parete, in apparenza sospesi a mezz'aria, si trovano imbragati per ovvi motivi di sicurezza da corde invisibili che ricordano quelle dei lavavetri professionisti.</p> <p>Dal punto di vista musicale, l'operazione è condotta in porto dalla bacchetta effervescente, a tratti addirittura irruenta, di Sesto Quatrini. <em>Il flauto magico</em> è un'opera di estrema raffinatezza nella scrittura dove, sotto l'ala in superficie innocua del genere popolare del <em>singspiel</em>, vengono toccati tutti i registri, dal patetico all'eroico, dal drammatico allo scherzoso, in una summa sbalorditiva di sapere compositivo. Al direttore non sfuggono le ramificate sottigliezze mozartiane, e l'orchestra del Teatro Regio fa il suo dovere con una prova di ottimo livello, ma nel risultato latita un poco la dimensione metafisica, fiabesca che è lato non trascurabile non solo del libretto di Schikaneder, declinato sul versante visivo fin troppo alla lettera da Kosky &amp; C., ma anche delle note di Mozart. I tempi sono serrati, eccellente è la scansione ritmica e dinamica della celebre ouverture in stile contrappuntistico, con tutte le voci nel giusto rilievo, ma il triplice accordo di Sarastro, che ritorna dopo la breve introduzione, a metà del pezzo suona più smarrito che autorevole. Viceversa, per limitarci a un solo esempio, nel complesso recitativo di Tamino all'interno del finale primo, 'Die Weisheitlehre dieser Knaben', unico a non essere sacrificato perché musicato per intero da Mozart, il direttore romano dimostra una sensibilità teatrale intensa e toccante. Il pregio di Quatrini è tener testa a una compagnia di canto assai eterogenea, in un lavoro che accanto ai caratteri principali ne prevede una grande varietà di secondari in una sorta di record per il Settecento, con anime molto differenti al proprio interno.</p> <p>Su tutti emerge la Pamina di Ekaterina Bakanova che, dopo il forfait delle prime recite, appare in condizione smagliante nelle ultime, guadagnandosi applausi a scena aperta in più di un'occasione. Voce piena e rotonda, agile in ogni registro, il soprano slavo risulta convincente e credibile per sicurezza di intonazione e densità emotiva nell'aria del secondo atto e nei numerosi passaggi d'insieme, svettando spesso sopra i compagni di palcoscenico. Di maggior ombrosità e dotato di minor mordente è il Tamino interpretato dal tenore Joel Prieto, di buona presenza per quanto consentito dall'originale regia ma talvolta sottotono e poco incisivo, sopratutto nei momenti di canto collettivo, quando la complessa tessitura vocale mozartiana tocca il massimo della ricercatezza con <em>mèlange </em>che richiede molto carattere a tutti i chiamati in causa. A suo encomio va comunque riconosciuta una buona padronanza stilistica nell'aria di esordio del primo atto (la celebre 'aria del ritratto' di Pamina) e nel sopracitato esteso recitativo. Considerazioni simili valgono per Alessio Arduini, baritono nella parte di Papageno, sacrificato dal lato attoriale e privato non per sua volontà di tutti gli effetti comici che costituiscono il lato non secondario del ruolo. Rimane così solo il versante squisitamente vocale, corretto e ben a fuoco anche nelle puntate verso l'acuto nelle due arie e nel duetto con Papagena, che, ai punti, rendono la sua una prestazione da pollice alzato. Molto attesa, come sempre, è la figura di Astrifiammante, la Regina della Notte, con il genio di Mozart capace di trasformare i suoi dodici minuti scarsi di apparizione in due tra i momenti clou, dal punto di vista musicale, di tutta la storia dell'opera. Serena Sáenz si conferma all'altezza dei vertiginosi picchiettati e dei virtuosismi di agilità da autentico soprano di coloratura con una voce non potentissima ma ben soppesata nell'intera estensione, dando l'impressione di arrivare al livello sovracuto senza particolare sforzo e difficoltà. Intensa ed emozionante, l'aria del secondo atto di Sarastro è applaudita dalla sala per la nobiltà di espressione e di accento infusa dal dal basso In-Sung Sim. Contribuisce alla riuscita dello spettacolo il folto gruppo di comprimari, molti dei quali artisti del Regio Ensemble: Papagena (Amélie Hois, soprano) dalla memorabile comparsa nel finale, le tre dame (Lucrezia Drei, soprano, Ksenia Chubunova e Margherita Sala, mezzosoprani), il moro Monostatos (Thomas Cilluffo, tenore), i tre fanciulli (voci bianche di Viola Contartese, Alice Gossa e Isabel Marta Sodano), il primo armigero (Enzo Peroni, tenore) e il secondo armigero (Rocco Lia, basso). Un plauso speciale, infine, allo splendido Coro del Teatro Regio e al suo maestro Andrea Secchi, che si confermano di recita in recita tra le migliori realtà italiane del settore.</p> <p>La sala gremita ed entusiasta tributa al termine ovazioni a tutti i protagonisti.</p> <p>Questa messinscena de <em>Il flauto magico</em> aveva il sapore di una scommessa, per l'approccio anticonvenzionale ed innovativo. Molte sono state le discussioni intorno ad essa, orecchiate tra gli spettatori nel corso della serata e confermate dalla lettura di altri articoli e recensioni, come è normale che accada. Alcuni potranno storcere il naso, altri lasciarsi prendere dall'entusiasmo, per convinzione intima o partito preso, oppure per l'inestricabile groviglio di molteplici fattori personali e ambientali. Resta il fatto che tanto fervore intorno a un titolo che vive soprattutto di segni lasciati sulla carta oltre 230 anni fa, ne conferma l'intrinseca vitalità, senza la quale ogni spettacolare cornice sarebbe ben poca cosa. É questa la lezione di ciò che, rimasto, è destinato a rimanere: fuggire la tempestività per essere senza tempo.</p>


 

 

 
 
 

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