Verdi non italiano
di Roberta Pedrotti
Oksana Lyniv coglie una convincente cifra interpretativa per I vespri siciliani, purtroppo ancora rappresentati in italiano e con il taglio dei ballabili. Nella compagnia di canto s'impone la bella prova di Roberta Mantegna.
BOLOGNA, 21 aprile 2023 - Dopo aver composto per Londra I masnadieri (opera a tutti gli effetti italiana, come nei gusti del pubblico inglese) ed essersi cimentato nella riscrittura dei Lombardi alla prima crociata come Jérusalem per Parigi, Les vêpres siciliennes costituiscono la prima vera esperienza di Verdi con con la produzione di un titolo originale in uno stile e per un sistema diversi da quello italiano. Arriva con la maturità di chi è giunto al nodo cruciale dei tre capolavori Rigoletto, La traviata e Il trovatore e si incammina su nuove strade. Qui è quella tracciata da Meyerbeer, Halévy, Auber: grand opéra non solo per le proporzioni e la presenza obbligata dei ballabili, ma anche per una drammaturgia concepita in grandi quadri storici, per la costruzione dei numeri musicali, la gestione della melodia e, non ultimo, il rapporto strettissimo con la prosodia francese. Bisognerebbe farsene una ragione, a dispetto di tutto il legittimo orgoglio per il genio connazionale: il Verdi dei Vêpres non è un Verdi italiano, né lo è mai diventato, dato che, a differenza di Don Carlos / Don Carlo, l'autore non si è mai premurato di curarne una versione riportata al gusto e allo stile della madrepatria. Né sarebbe stato facile: Les vêpres siciliennes è parente più prossimo di Les Huguenots, La juive o La muette de Portici che non di Un ballo in maschera o Nabucco. La stessa patina patriottica non è che un'applicazione posticcia per un libretto che nasce ambientato nelle Fiandre e destinato a Donizetti (Le duc d'Albe) e poi, riciclato per Verdi, si rinfresca con una disinvolta ricollocazione palermitana che oggi, probabilmente, farebbe stracciar le vesti a tanti melomani cosiddetti “puristi”.
Più si ascoltano Les vêpres o I vespri più ci si chiede per quale ragione si perseveri a favorire la traduzione all'originale, cosa che, snaturando le peculiarità del testo, non fa nemmeno un buon servizio a Verdi e rischia di far apparire il suo primo cimento grandoperistico come un titolo minore. Senz'altro, in un'ottica “all'italiana”, cede il passo alle colleghe, ma nella giusta prospettiva mostra invece il suo valore. Ci rammarichiamo, quindi, di ascoltare ancora una volta “In braccio alle dovizie” o “Mercé dilette amiche”, mentre i ballabili sono del tutto soppressi, ma perlomeno abbiamo la bella sorpresa della concertazione di Oksana Lyniv. C'era chi l'aspettava al varco di Verdi e, se il metro era quello della tradizione nostrana, sbagliava di grosso: la chiave del successo della lettura di Lyniv è proprio il non aver rincorso gli stilemi dell'opera italiana, di non aver equiparato I vespri, benché tradotti, alla poetica della trilogia popolare. Da wagneriana avrà forse ricordato che anche Rienzi è un Wagner sui generis. Evidenzia allora la geometria delle forme strofiche e delle loro ricorrenze, sottolinea la verticalità della scrittura e gestisce i tempi con rigore. Il piglio vigoroso e battagliero, la perorazione di Elena a coronamento della sua aria di sortita che si trasforma in inno, l'espansione di “O patria adorata”, così come l'introspezione dei momenti solistici più delicati si giovano proprio di questo controllo proteso alla retorica di Meyerbeer più che a quella del romanticismo italiano.
Si apprezzano l'intensità dell'orchestra e del coro del Comunale, mentre il cast vocale esige dei distinguo. Su tutti si impone l'Elena di Roberta Mantegna, forte di un'emissione franca, ben timbrata e sostenuta sul fiato e nella parola: non teme ardente eloquio della citata sortita né le insidie che pervadono “Arrigo! ah! parli a un core”, là dove nel cantar piano nulla può sfuggire. Anche il Bolero conferma la completezza e la solidità dell'artista, nonché la capacità di gestire le proprie energie di fronte al virtuosismo collocato in una posizione così scomoda, dopo quattro atti senza tregua.
Assai bene il Procida Riccardo Zanellato, che si dimostra sempre interprete affidabilissimo di questo repertorio. A Stefano Secco va, invece, reso soprattutto l'onore delle armi: previsto in seconda compagnia subentra con la prima dopo la defezione per ragioni familiari di John Osborn; da tenore avvezzo da sempre all'opera francese e via via addentratosi nel repertorio verdiano poteva essere una scelta vincente sulla carta, ma la teoria si deve scontrare con la concreta ed estrema difficoltà della parte di Arrigo (più che comprensibile, in questo contesto, il taglio della Siciliana del quinto atto). Secco, mestiere collaudato ma mezzi non più freschissimi, si destreggia con onore fino allo scoglio di “Giorno di pianto”, dopo il quale la stanchezza si fa decisamente sentire e la recita si conclude sottotono, evitando comunque incidenti. Franco Vassallo, da parte sua, è un Monforte sonoro, ma non proprio aggraziato e a proprio agio nelle finezze che un'aria come “In braccio alle dovizie” esigerebbe, incappando in qualche suono fisso e non perfettamente a fuoco.
Completano bene la folta locandina il Bethune di Gabriele Sagona, il Vaudemont di Ugo Guagliardo, la Ninetta di Carlotta Vichi, il Danieli di Francesco Pittari, il Tebaldo di Manuel Pierattelli, il Roberto di Alessio Verna e il Manfredo di Vasyl Solodkyy.
C'è, poi, il lavoro di Emma Dante con la sua squadra di collaboratori (scene di Carmine Maringola, costumi di Vanessa Sannino, luci di Cristian Zucaro, movimenti di scena di Sandro Maria Campagna, assistente alla regia Federico Gagliardi, assistente alle luci Lorenzo Gaudenzi) e gli attori della Compagnia Sud Costa Occidentale ai quali si affiancano i figuranti della Scuola di teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone. Una realizzazione senz'altro d'alto livello professionale sotto ogni punto di vista, con il pregio della coerenza e di un'immediata riconoscibilità della cifra estetica, oltre che della chiarezza nell'associazione fra richiami all'attualità (i ritratti delle vittime di mafia sui gonfaloni) e alla iconografia siciliana (dalla “Santuzza” Rosalia inquieta depositaria delle speranze degli isolani alla tonnara che fa strage degli oppressori). Resta, però, la sensazione di un marchio di fabbrica che si appaga di sé e della sua ottima confezione senza andare molto oltre nell'elaborazione drammaturgica, nello scavo psicologico, nella recitazione e nella ricerca di immagini che non siano sempre topoi.
Alla fine, buon successo per tutti gli interpreti, qualche commento un po' scettico sull'opera in sé: non sarà l'ora di mettere definitivamente nel cassetto I vespri e ascoltare solo Les vêpres, come Verdi ha scritto (e già si era fatto a Palermo, che coproduce lo spettacolo: leggi la recensione)?