Chailly, la psicologia e l’atmosfera
di Francesco Lora
Quella al Teatro alla Scala è soprattutto la Lucia di Lammermoor di Chailly, interprete donizettiano all’apice della curiosità, dello studio e dell’intuizione acuta. Non allineati con la sua lettura sono però Lisette Oropesa e Juan Diego Flórez, né tantomeno lo è Boris Pinkhasovich, mentre una lezione di canto all’italiana viene da Michele Pertusi.
MILANO, 23 aprile 2023 – Nell’ultima Lucia di Lammermoor andata in scena al Teatro alla Scala, per otto recite da 13 aprile al 5 maggio, l’aspetto di minor interesse è che si tratti di un nuovo allestimento scenico. Per regìa, scene e costumi lo ha firmato Yannis Kokkos, insieme con Vinicio Cheli per le luci, Eric Duranteau per i video e Anne Blancard per la drammaturgia. Non si coglie, tuttavia, l’utilità della trasposizione temporale, dal periodo che precede il 1707 agli anni Venti del Novecento; attori e massa corale, sul palcoscenico, sembrano appellarsi alla personale esperienza pregressa anziché a precise istruzioni; ci s’imbarazza a ricordare che proprio questo allestimento, ora recuperato, avrebbe dovuto aprire la stagione 2020/21: cancellato a causa del riemergere della pandemia, avrebbe dunque segnato un’inaugurazione povera. La diagnosi più corretta è forse la meno cervellotica: come Pier Luigi Pizzi e Hugo De Ana, Kokkos s’è a suo tempo imposto soprattutto concependo spettacoli dall’impianto colossale, faraonico, dispendioso; passati dalle vacche grasse a quelle magre, però, un Pizzi ha saputo rigenerare la poetica e sfoderare sottili nuove vene teatrali, un De Ana ha a sua volta compresso la quantità ma non la personalità delle idee, mentre più di tutti sembra averne patito il collega francese, ora irriconoscibile, anche alla Scala e per un previsto sant’Ambrogio, come pure è stato nella recente Forza del destino a Parma, rispetto ai notevoli lavori di vent’anni fa: Der fliegende Holländer per Bologna, Iphigénie en Tauride per Milano stessa, Boris Godunov per Vienna, a volerne menzionare giusto alcuni.
Ecco invece una Lucia di Lammermoor che ha la sua massima ragion d’essere nella concertazione di Riccardo Chailly, biograficamente poco avvezzo a Donizetti ma qui còlto all’apice della curiosità, dello studio e dell’intuizione acuta. Legge la partitura con mente vergine e le prodiga le stesse cure strumentali che se fosse di Mendelssohn: ogni volta che il podio richiama un intervento di flauto, oboe, clarinetto o corno solo, al musicofilo s’impenna il naso per il compiacimento, così come lo stacco dei tempi, di preferenza indugiante, e la gamma timbrica, di preferenza brumosa, fanno subito, del dramma, la psicologia e l’atmosfera. È adottato l’ultimo aggiornamento dell’edizione critica a cura di Gabriele Dotto e Roger Parker; ossia: sono risistemate numerose lezioni nel testo verbale; è fatta piazza pulita degli errori in quello musicale; si estirpa finalmente la famigerata “cadenza del flauto”, spuria, successiva di un buon mezzo secolo rispetto alla composizione dell’opera e alla civiltà artistica di Donizetti, nonché parafulmine di smodata attenzione rispetto a un testo principale di valore incomparabilmente maggiore; si ripristina la glassarmonica, col suo suono fuori dal mondo, nell’intera scena della pazzia; soprattutto, s’ascoltano per la prima volta in assoluto quattro interessanti frammenti, compiuti dall’autore ma poi cassati, com’è probabile, per banali accidenti di vita teatrale, indi finiti nel dimenticatoio: quattro battute nel cantabile della cavatina di Lucia, sette nell’uragano che apre l’ultimo atto, quattordici nella scena che precede l’ingresso della protagonista, otto alla fine del tempo di mezzo della scena della pazzia.
Spiace allora che l’occasione di una Lucia di Lammermoor musicalmente riavvalorata, dalla quale ripartire dimenticando le banalizzazioni della tradizione, cada in ostaggio di una compagnia di canto tanto lussuosa quanto invero limitante. Ciò a partire dalla primadonna, Lisette Oropesa, benché oggi più che mai sulla cresta dell’onda e appena decorata – pessimo tempismo – col Premio Abbiati. Nella sua Lucia s’apprezzano i noti pregi: l’aura della freschezza adolescenziale predestinata a romantica sconfitta, l’omogeneità timbrica, gli sgranatissimi trilli e la moderna restituzione, in fraseggio e corporeità, di una parte cristallizzata. A ciò s’accodano, nondimeno, mende e dubbi. La vocalizzazione fluisce morbida nelle linee cantabili ma diviene laboriosa in quelle di forza. La stanchezza si fa sentire: la struttura musicale obbliga a eseguire assieme i primi due atti, ma alle repliche è stato aggiunto un intervallo a verosimile pro del soprano. Soprano che pure tira al risparmio: nella coda della prima cabaletta, per dirne una, lascia il pertichino assurdamente da solo, a intonare alla terza inferiore una melodia principale taciuta onde più comodamente preparare il sopracuto finale interpolato. Sarebbe stata anche l’occasione per ripristinare le tonalità originali – più alte – nel duetto con Enrico e nella scena della pazzia, tanto più che il tallone d’Achille della Oropesa sta nel registro grave; e invece no: per non rinunciare al sopracuto finale – ci risiamo – e per non doverne sparare uno oltre le proprie facoltà – un Mi e un Fa, rispettivamente – rimangono le versioni trasposte. Né l’intonazione è immacolata.
Giova non perdere di vista che Lucia di Lammermoor, vetrina di soprani sommi, nasce e si tramanda soprattutto come opera “del tenore”, alla maniera del Pirata di Bellini o del Trovatore di Verdi, e a dispetto della coprotagonista che s’aggiudica il titolo. Per l’arcidivo Juan Diego Flórez e per il suo portare alla Scala il capolavoro di Donizetti, però, il tempo massimo risulta scaduto, o quantomeno infausto il periodo: lo smalto è ridotto a fibra, la proiezione costa fatica; per ben udire, a ogni recita, occorre tendere l’orecchio, e ci si rattrista a doverne prendere atto. Sicché il gioco del cantante si concentra in difesa: la varietà d’accento si riduce a generico, prudente garbo in una parte, quella di Edgardo, al contrario memorabile, trascolorante, impetuosa. Nel contempo, v’è la pericolosa inclinazione a cercare una brunitura di timbro e un tonnellaggio di suono di per sé mai avuti e nemmeno pretesi. Anche nel caso di Flórez, le cattive abitudini della tradizione hanno talvolta la meglio sulle buone maniere di Chailly, ovvero quelle di Donizetti: nel duetto dell’atto I, la fugacissima salita al Mi bemolle sopracuto non è nemmeno tentata – ma se non la attua un Flórez, a che santo bisogna votarsi? – così come la scintillante invettiva in testa alla stretta del Finale II, dove il tenore dovrebbe avvinghiare «Ah! ma di Dio la mano irata | vi disperda» su un’orchestra bollente, diviene la solita scena muta, con omissione delle prime sette, decisive parole allo scopo, controproducente, di preparare un isolato, tonante, inutile Si bemolle acuto, estraneo alla logica del teatro e della musica.
Per la parte antagonistica di Enrico, vi sarebbe stato l’imbarazzo della scelta tra baritoni italiani, d’anagrafe o comunque di stile, quali Luca Micheletti o Luca Salsi, Florian Sempey o Ludovic Tézier: tutti avrebbero potuto entrare con profitto nella lettura di Chailly e nella positiva collaborazione con Oropesa e Flórez. Artisticamente inspiegabile rimarrà invece il coinvolgimento di Boris Pinkhasovich, russo di cittadinanza e – quel ch’è peggio, nel caso presente – di convenzione canora, con quell’emissione sempre machisticamente rocciosa, quel porgere invariabilmente brusco, quel timbro dalla fonica non idiomaticamente latina, quella culturale indisponibilità a cogliere la maggiore efficacia di una soffusa allusione mentitrice rispetto agli abusivi e rozzi scadimenti dal cantato al parlato. I cattivi dell’opera italiana richiedono ben altra perversione interpretativa. A sdoganare la severità del critico, del resto, è l’opulenta presenza di un basso che, nella parte quarta in gerarchia di Raimondo, dà lezione di sobrio stile espressivo, solida tecnica vocale, superba longevità artistica: Michele Pertusi, fin dalla prova generale, si conferma il padre nobile del canto all’italiana, incapace com’è sia di strafare, sia di non fare tutto bene, con la più immediata comunicativa e il più indelebile accento. Bravo anche, in tre repliche, l’interprete alternativo, Carlo Lepore, che però, con quel suo vocione trasudante timbro e scoppiettante d’energia, suggerisce, senza volere, la brillantezza buffa del Dottor Dulcamara. Comprimariato di lusso, con, per Arturo e Normanno, due Edgardo in fieri: Leonardo Cortellazzi e Giorgio Misseri.