Troppo piccolo per la Scala
di Francesco Lora
La massima fondazione lirica italiana partecipa all’internazionale risvegliarsi dell’interesse attorno a Leonardo Vinci, ma punta sugli Zite ngalera anziché su un più indiscutibile capolavoro serio. La regìa di Leo Muscato e la direzione di Andrea Marcon cedono, nel merito, al contributo dei cantanti, in particolare Francesca Aspromonte, Antonino Siragusa e Marco Filippo Romano.
MILANO, 12 aprile 2023 – Ha senso che il Teatro alla Scala, nei suoi benvenuti itinerari sei-settecenteschi, scelga di mettere in cartellone Li zite ngalera di Leonardo Vinci, partitura del 1722, come ha fatto, per cinque recite, gli scorsi 4-21 aprile? Poco, giacché ogni istituzione lirica è oggi chiamata a un progetto peculiare, fruttuoso e leggibile, e non se ne consegue qui il caso. C’è un problema di genere: si tratta non di un dramma serio in lingua toscana, ma di una commedia in vernacolo napoletano, il cui contesto naturale di comprensione – il pubblico capisce a fatica le parole, lì fondamentali – e di rivalutazione – il pubblico piglia e dimentica, senza chiedere il bis – non sarebbe prioritariamente la New York della pianura padana; e si tratta, soprattutto, di un sottogenere ipervalutato durante il Novecento, quando ci si compiaceva, anche accademicamente, di tutto ciò che odorasse di popolare e alternativo alle convenzioni nei libretti di Apostolo Zeno, Antonio Salvi e Pietro Metastasio, soprassedendo sull’effettivo pregio delle partiture e ignorando che furono proprio quelle drammaturgie a formare laicamente l’uomo del Settecento. C’è poi un problema di spazi: nei secoli scorsi le metropoli si dotarono quasi sempre di una coppia di teatri correlati, uno più grande, destinato perlopiù al genere serio, e uno più piccolo, destinato perlopiù a quello comico; così fu a Napoli, col San Carlo, sempre nelle sue funzioni, e il Fondo, l’attuale Teatro Mercadante; a Milano, l’architetto Giuseppe Piermarini progettò insieme le sale complementari della Scala e della Canobbiana, quest’ultima poi irresponsabilmente rifatta nell’attuale Teatro Lirico e oggi irrecuperabile nelle sue strutture e funzioni originali; demolita anche la Piccola Scala, oggi la massima fondazione lirica italiana, con la sua sala immensa e l’ancor più enorme palcoscenico, non dispone di uno spazio su misura per quei titoli caratterizzati da una più piccola taglia sonora. Avrebbe invece molto senso partecipare, da parte della Scala, all’internazionale risvegliarsi dell’interesse, appunto, attorno a Vinci, il più celebrato operista attivo nella Penisola, insieme con Johann Adolf Hasse, negli anni d’oro di Francesca Cuzzoni e Vittoria Tesi, di Carlo Broschi Farinelli e di Giovanni Carestini; bisognerebbe però puntare, come mezza Europa sta già facendo, sui capolavori indiscutibili, su grandi opere che siano opere grandi e su opere grandi che siano grandi opere: Catone in Utica, Alessandro nell’Indie e Artaserse, già rieseguiti ad alti livelli, o ancora meglio il favoloso Medo, tuttora non degnamente ripreso in età contemporanea. Per intendersi più chiaramente: forse – forse: giochiamo – fra tre secoli, nella galassia lontana lontana, si avranno idee confuse anche su Giuseppe Verdi e si vorrà tornare a eseguire, conoscere e apprezzare le sue opere; non farà male in senso assoluto, ma per certo peccherà d’ingenuità, chi anteporrà Un giorno di regno alla Traviata o Alzira ad Aida. Voler ripartire da Li zite ngalera, a Milano, nel 2023, denota tanta buona volontà quanta modesta consapevolezza storica e testuale: ma la Scala non dovrebbe essere un’istituzione di tentativi.
Ai fatti, ecco il resoconto dello spettacolo. L’allestimento ha scene di Federica Parolini, costumi di Silvia Aymonino e luci di Alessandro Verazzi, il tutto gustosamente rispettoso dell’originale ambientazione settecentesca. Problematica è tuttavia la lettura registica di Leo Muscato, cui non dev’essere bastato il monito a Martina Franca, l’estate scorsa, con un Xerse di Francesco Cavalli gravemente equivocato nel linguaggio del genere suo e dunque nella sua plausibile restituzione [leggi la recensione]: i personaggi divengono macchiette per le cui gags sghignazzare, anziché essere indagati nella loro autentica e palpitante umanità; i tagli inferti a libretto e partitura non solo offendono le strutture teatrali e musicali, ma anche il senso compiuto delle situazioni. Spiace che l’anacronistico massacro della struttura col da capo, l’inserzione di frasi parlate e di una folklorica tammurriata finiscano approvati dal concertatore, Andrea Marcon, il quale con Bernardo Ticci si presenta anche in veste di curatore dell’edizione critica, e mostra una tale competenza stilistica da premettere a questi Zite ngalera, tramandati senza brano strumentale introduttivo, la militaresca e squillante sinfonia del summenzionato e assai più poderoso Alessandro nell’Indie: il che sarebbe come mettere davanti al Signor Bruschino l’ouverture di Guillaume Tell. Positivo è in ogni caso cimentare l’orchestra della Scala, e con ottimo profitto, in una letteratura pre-classica e imbracciando strumenti all’antica. Vi sono, infine, ancora a denotare l’assenza di una bussola metodologica, i problemi non tanto dei cantanti individualmente considerati, quanto della compagnia di canto ecletticamente composta: ciascuno è stato coinvolto in quanto specialista di tale repertorio, o comunque in nome di una sua non sbagliata attendibilità, ma ciascuno reca con sé stile, tecnica e intenzioni in scarso dialogo con quelli altrui; senza che il regista o il direttore istruiscano al comune denominatore, ciascuno canta la propria opera. E in prima battuta sono, tutti lodevolmente impegnati, Chiara Amarù come Belluccia Mariano, Francesca Pia Vitale come Ciomma Palummo, Filippo Morace come Federico Mariano, Alberto Allegrezza come Meneca Vernillo, Filippo Mineccia come Titta Castagna, Matías Moncada come Assan e Fan Zhou come Schiavottella. A parte vanno menzionati: Francesca Aspromonte, paradigma di espressiva musicalità e di ortodossia stilistica, come Carlo Celmino; Antonino Siragusa, temibile poiché latore di mezzi pienamente ottocenteschi, come Col’Agnolo; Raffaele Pe, che per accattivarsi il pubblico eccede in stucchevoli moine, come Ciccariello; Marco Filippo Romano, forse il buffo oggi in assoluto di più contagiosa simpatia, come Rapisto. Alla memoria rimarrà nondimeno più saldo il ricordo di un’altra produzione degli Zite ngalera: erano l’inizio del nuovo millennio e altri tempi di riscoperte, dirigeva Antonio Florio con la Cappella della Pietà dei Turchini, cantavano Roberta Invernizzi e Pino De Vittorio, i mezzi erano di gran lunga più economici di quelli scaligeri; in bocca, però, ne resta ancora il sapore di ragù alla genovese.