Dalla morte alla vita
di Luigi Raso
Romeo Castellucci rilegge scenicamente il Requiem di Mozart in uno spettacolo che non manca di suggestioni, ma soverchia inevitabilmente l'estremo capolavoro sacro del compositore.
NAPOLI, 16 maggio 2023 - Dalla morte alla vita: una rappresentazione del ciclo dell'esistenza che principia dalla fine. La Missa pro defuntictis diventa un inno alla vita. È questa la concezione che il regista Romeo Castellucci ha di una delle più intese e profonde meditazioni musicali sulla morte, il Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart.
Partendo all’estrema e incompiuta composizione mozartiana, dalla sua originaria ossatura musicale e dal completamento ad opera di Franz Xaver Süßmayr, Romeo Castellucci costruisce uno spettacolo personalissimo, non privo di fascino e suggestione visiva, che racconta il ciclo del passaggio dalla morte alla vita, l’inesorabile fluire di tutto ciò che è nel nulla, nel silenzio e nella polvere; adombra, quale corollario di queste premesse, l’estinzione della specie umana annunciandone, al tempo stesso, la rinascita finale.
All’interno di questi antipodi - morte e rinascita – Castellucci, che dello spettacolo firma anche scene, costumi e luci, fa proiettare sulla quinta scenica l’Atlante delle grandi estinzioni, un elenco - interminabile e ripetitivo, la cui lettura finisce per distogliere l’attenzione dallo spettacolo - di res tangibili e spirituali che ci insegnano/ricordano che civiltà, città, fauna, lingue, laghi, opere d’arte, architetture e via dicendo,ù sono transeunti. Ma contemporaneamente in scena si muovono passi di danza e semplici ma coinvolgenti coreografie che celebrano l’esplosione della vita: invero, un omaggio più confacente a Le sacre du printemps di Igor Stravinskij che al Requiem di W. A. Mozart.
Sulla base di queste coordinate interpretative - che si fatica ad individuare nel substrato della sequenza musicale mozartiana - Romeo Castellucci e la Dramaturg Piersandra di Matteo, costruiscono uno spettacolo (produzione del Festival International d’Art Lyrique d’Aix-en-Provence in coproduzione con La Monnaie, Adelaide Festival, Theater Basel, Wiener Festwochen e Palau de las Arts Reina Sofia di Valencia) che appare quale altra cosa rispetto al Requiem di Mozart. Uno spettacolo originale, innovativo, indubbiamente costruito con estrema cura, ma che, per chi scrive, appare ricco di trovate sceniche a servizio di una concezione (troppo) lontana da quella profonda e intensa meditazione sulla morte che è l'estremo capolavoro sacro del Salisburghese.
In questo spettacolo, infatti, vengono inseriti brani musicali di Mozart stesso e canti gregoriani: ne risulta non una delle possibili messinscene della partitura, ma un prodotto, sicuramente di buona fattura, frutto di esuberante immaginazione, che finisce per sovrapporsi all’opera musicale che pur intende “interpretare”. C’è, in un questa operazione, tanto dell’universo registico di Romeo Castellucci: richiamando l’arte cinematografica, è come se il Requiem di Mozart diventasse la colonna sonora dell’opera originale del regista.
Non mancano, in questa giustapposizione di tableaux vivants, momenti di intensa potenza drammatica, visiva e simbolica: il finale, con l’umanità seppellita dal fango/rifiuti, è un monito sul rischio di estinzione che stiamo correndo; la cacciata degli uomini in sembianze adamitiche dal paradiso terreste è struggente, così come il frinire dei grilli che avvolge il palcoscenico buio e vuoto; molto intensa l’antifona In paradisum intonata dalla voce bianca e dal coro in chiusura dello spettacolo; ma si notano trovate, a giudizio di chi scrive, ripetitive: il lungo elenco di nomi contenuto nell’Atlante delle grandi estinzioni, le movenze tersicoree del coro che stridono, inoltre, con la potenza drammatica del Dies irae, già fortemente depotenziato dall’innesto di Ne pulvis et cinis, K 345 che segue il Kyrie. Ridondanti appaiono i riferimenti all’arte informale, alla body art; discutibili appaiono l’ingresso in scena del bambino, la magnifica voce bianca dello spettacolo, che gioca a palla con un teschio umano, così come l’intonazione, dopo il Lacrimosa, di un breve frammento di Amen e il far cadere improvvisamente sul palcoscenico il coro/danzatori (le coreografie sono curate da Evelin Facchini e si avvalgono anche del Balletto del Teatro San Carlo diretto da Clotilde Vayer): come a dire, “qui si è fermato Mozart!”.
Dopo la caduta del coro e delle piante, il frinire dei grilli invade la sala, poi riprende la danza, evocando antichi riti propiziatori che abbracciano varie epoche, civiltà e religioni, tesi a celebrare lo spirito vitalistico esaltato dalla consapevolezza che tutto sarà inghiottito dalla polvere, uno degli elementi feticci di questo spettacolo.
A conclusione dello spettacolo si scorge, sulle tavole del palcoscenico alzate ad angolo quasi retto, l’elemento iconografico della Rota Fortunae medioevale,simbolo della imprevedibilità delle fortuna e, per questo spettacolo, del ciclo della vita.
Dal punto di vista strettamente musicale, al netto delle interpolazioni musicali che alterano il testo musicale di Mozart finendo per appesantirlo eccessivamente smorzandone l’unitarietà, la direzione di Raphaël Pichon, alla testa dell’affidabile e coesa orchestra del Teatro San Carlo, sceglie tempi serrati e un suono orchestrale nitido e secco. Quella di Pichon è però una concezione musicale del Requiem calibrata sulle esigenze dello spettacolo di Castellucci, la quale inevitabilmente non può denotare la personale visione interpretativa del giovane e talentuoso direttore francese.
Ma il vero gioiello di questa produzione è da rintracciare nella magnifica prova del Coro dell’Ensemble Pygmalion: perfetto per intonazione, fusione e coesione vocale, dal suono levigato, celestiale, stupefacente sia nel ricreare atmosfere metafisiche negli innesti di musica gregoriana, sia nel dare incisività, accenti e colori alla musica di Mozart.
Tradiscono peso vocale esiguo, smalto timbrico prosciugato Sara Mingardo (mezzosoprano) e Nahuel Di Pierro (basso); Julian Prégardien (tenore) ha emissione talora forzata; voce dal bel colore e timbro, invece, Giulia Semenzato (soprano).
Un plauso è da riservare alla magnifica voce bianca di César Badault, alla quale lo spettacolo affida l’intesa antifona finale.
Alla fine, un San Carlo gremito, malgrado qualche defezione registrata durante il lungo spettacolo (circa un’ora e quaranta minuti, senza intervallo), tributa un convinto successo che si sovrappone a qualche cenno di isolata contestazione nei confronti del regista, scenografo e costumista Romeo Castellucci.