L’Onegin di Wellber
di Giuseppe Guggino
Complessivamente valida la parte musicale per il ritorno dell’Onegin di Čaikovskij sul palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo dopo ventiquattro anni, con punte di merito per la concertazione di Omer Meir Wellber e per Giorgi Manoshvili impegnato come Gremin. Salutata invece da contestazioni il modesto allestimento proveniente dal Theater Magdeburg.
Palermo, 19 maggio 2023 - Lungamente atteso da quando era stato annunciato come titolo inaugurale della stagione d’opera 2021, poi rinviato a causa covid, approda dopo ventiquattro anni – con due e mezzo di ritardo –Evgenij Onegin di Čaikovskij al Teatro Massimo di Palermo, con la splendida direzione di Omer Meir Wellber che ne dà una lettura asciutta, cangiante, molto maturata e considerevolmente più equilibrata rispetto al radicale approccio interpretativo altre volte praticato e documentato anche in dvd. Non c’è ombra di dubbio che la sintonia sviluppata fra i complessi del Massimo di Palermo – che fanno assai bene, nonostante qualche occasionale sbavatura fra gli ottoni – e il loro direttore musicale costituisca il principale motivo di interesse e, al contempo, elemento di successo dell’intera serata a cui concorre in misura minore il cast di solisti, di pari livello solamente per la nobiltà di canto, davvero d’altri tempi, del giovanissimo Gremin di Giorgi Manoshvili.
Carmen Giannattasio è una Tat’ana ben centrata e accuratamente preparata sul piano interpretativo, mentre su quello strettamente musicale riesce sotto il profilo della correttezza, disegnato con uno strumento timbricamente non sempre avvenente e soprattutto non sempre omogeneo. Parimenti accade a Artur Rucinski che veste i panni di Onegin con disinvoltura, ancorché con uno strumento che suona sovente legnoso e avaro di smalto. Più preziosa timbricamente è la pasta tenorile di Saimir Pirgu che disegna un Lenskij ancora sufficientemente fresco e scenicamente plausibile al fianco di Victoria Karkacheva, Olga piuttosto ordinaria.
Fra i comprimari, in ordine di merito, sono da annoverare Andrii Ganchuk, ottimo Zareckij e Capitano, la Larina un poco caricaturale di Helene Schneiderman, Margarita Nekrasova impegnata come Njanja e lo svenevole Triquet di James Kryshak.
Accantonata l’idea di un nuovo allestimento, già a suo tempo assegnato all’enfant terrible del teatro di regia tedesco Johannes Erath, non rimane che ripiegare sul noleggio, ma dal teatro d’avanguardia tedesco alla provincia tedesca di Magdeburg il salto al ribasso è davvero un poco troppo grosso: inutile profondersi nell’elencare i difetti dello spettacolo di Julien Chavaz, le sue coreografie demenziali, riferire del mimo giardiniere che assurge a filo conduttore di tutti i quadri, commentare le modeste collinette di cartapesta da presepio di Amber Vandenhoeck o soffermarsi sui costumi vagamente americani anni ’60 di Sanne Oostervink. Basti dire che anche un pubblico tranquillo e per nulla incline alla contestazione quale è quello del Massimo palermitano ha salutato la parte visiva con sonore e meritate contestazioni, indirizzando invece consensi molto convinti ai responsabili della parte musicale e in particolare a Wellber.