Cronaca di un (in)successo prevedibile
di Sergio Albertini
Nonostante il clamore mediatico sono molti, troppi gli elementi critici nella ripresa della Traviata al Teatro Lirico di Cagliari.
Cagliari, 26 maggio 2023 - Red carpet. O, meglio, una corta passatoia usata (persino qualche traccia di bruciatura di sigaretta...). Fotografi, e pubblico piacevolmente in posa. Immagini infinite sui social. Alla fine della recita, rigorosamente ad inviti, un buffet con tramezzini & annessi. No, non è l'inaugurazione, non è una 'prima'. O meglio, lo è. La prima volta per chi dal podio affronta La Traviata. E si sente.
Andiamo con ordine.
La traviata e Cagliari hanno una bella storia da raccontare. Qualche scheggia di memoria; una giovane Callas nel '51 (prima e ultima volta in Sardegna) accorsa a sostituire l'indisposta titolare (Fiorella Carmen Forti); Virginia Zeani a più riprese ('55, '59, '71), assieme alla Carteri, a Nelly Miriciou, alla compianta Devinu, alla Gallardo-Domas, alla Agresta (nel 2011). È opera importante, è opera bella, è opera che attira pubblico. Tanto, per questa ripresa. Come mai s'era visto negli ultimi tempi. Presenti il Sindaco, l'Assessore Regionale al Turismo. Merito di Verdi, o forse no.
Torna un allestimento ormai storico. Quello che si vide già a Cagliari nel 2000. Quello, nato per lo Sferisterio di Macerata, dominato dal grande specchio ideato da Josef Svoboda per la regia di Henning Brockhaus, presente e curatore di questa ripresa cagliaritana.
Questa potrebbe (anche) essere la cronaca di un inciampo. Più d'uno. A partire dal podio. La traviata di Verdi si sfarina lentamente sotto un gesto ripetitivo, circolare, monocorde. Inutile dichiarare di avere come modelli Kleiber e Bernstein. Parlano le note. Le ascoltiamo. Parla una tecnica del braccio destro più amatoriale che professionale.
L'attaco del Preludio è appena sussurrato dall'orchestra del Lirico di Cagliari, un suono sospeso, etereo. Di lì a poco, l'inciampo; uno scollamento fossa/scena, dura poco, troppo per l'orecchio attento. Il coro e l'orchestra prendono strade diverse, un ritardo (o un anticipo?). Tutto torna nei binari. I binari, tuttavia, d'una esecuzione datata e confusa, dove dal mezzo forte in su si ritorna a quelle letture alla garibaldina, tronfie e caciarone. L'orchestra ondeggia, indecisa, su quale binario interpretativo seguire. Una agitazione nervosa ? Una calma piatta ? Un languore dilatato ? Nessuna cifra precisa, ma un tirare avanti, come va', va'. Un'orchestra che sembra inseguire il ritmo, anziché costruirlo. Il 'Brindisi' è indicato come Allegretto, ma ha un incedere privo di qualsivoglia eleganza. L'attacco di 'Di quell'amor' chiede un crescendo con espansione, che viene a mancare. I ritmo di polacca della cabaletta di Alfredo, all'inizio del secondo atto, fa coppia col canto grezzo e frantumato del tenore. Ora, chi dirige, in una intervista (una delle mille cui ci ha abituato) sul programma di sala, dichiara: “Tanto per cominciare, si dovrebbe tenere conto dei gusti del pubblico, ma anche delle sue esigenze e del fatto, per esempio, che la soglia di attenzione dello spettatore medio non sia la stessa di due secoli fa”. (Nota personale: quindi niente più Les Huguenots, L'Orontea, Parsifal?). Prosegue l'intervista: “Sono cambiati i tempi di fruizione, è ovvio. Se in questa edizione della Traviata, dunque, ho scelto di apportare tutti i tagli di tradizione (tranne uno, 'Addio del passato', che è troppo importante per rinunciarvi), è per venire incontro alle esigenze dei cantanti e del pubblico. Lo faccio nel rispetto, si capisce, del melodramma, della sua storia e degli interpreti che l'hanno resa grande”. Via ogni ripresa. Della cabaletta di Alfredo, di quella di Germont padre, e via tagliando. Nel rispetto del melodramma. Così dice.
Nel rispetto del melodramma, occorrerebbe anche avere, fin dove sia possibile, un cast adeguato. Vocalmente ed attorialmente. Ecco Gilda Fiume. Che Violetta ha più volte interpretato, dal suo debutto nel ruolo a Salerno (2017) fino alle recite di Treviso, Trieste, Seoul, Torino, Boston. Il ruolo, almeno vocalmente, ben lo conosce e lo possiede: voce interessante, di schietto soprano lirico (con una estensione alla coloratura), dalla tecnica consolidata (dietro un certo gusto belcantistico c'è lo zampino della sua Maestra, Mariella Devia). E tuttavia, a volte la voce sembra quasi 'sparire', come nella prima parte del primo atto; la grande aria che lo conclude la vede sicura sino ad un 'Sempre libera' meno convincente. Alla battuta 145, sui Sol sono ben indicati i trilli, che sono stati decisamente spianati. I momenti migliori sono stati “Alfredo, Alfredo, di questo core” (cantato dalla Fiume adagiata mollemente in un canapè), ma soprattutto “Addio del passato”, eseguito con un legato morbidissimo, mezze voci eteree sospese su fiati lunghissimi. Quello che latita, e molto, è l'interprete: il suo è canto puro, non possiede alcuna inflessione che caratterizzi il personaggio. Non la febbricitanza, non il dolore, non la coquetterie salottiera, non la disperazione. Note quasi sempre 'belle', ma algide, neutre. Le fa difetto anche la disinvoltura scenica, né l'aiuta una gestualità al limite col goffo e una scarsa propensione alla relazione dinamica nei duetti (incluso un accenno a passo di valzer in “Parigi, o cara”), aggravata, nel lungo dialogo con Germont padre, da uno spazio enorme, e vuoto, che lasciava i due cantanti come soggetti smarriti.
Altro inciampo. Allo sbaraglio il canto brado di Riccardo Della Sciucca, un Alfredo Germont con notevoli difficoltà di intonazione, ma soprattutto con un registro acuto 'schiacciato', e acuti frantumati e mal sostenuti; “De' miei bollenti spiriti”, privo della ripresa e della puntatura finale, è stato davvero l'apice di una prestazione ai limiti della decenza. E pure, nella passerella finale, il pubblico lo ha accolto con applausi entusiastici (che la dice lunga sulla competenza del pubblico presente a questa 'strana' prima).
Deludente anche il Germont padre; in altre prove ho apprezzato Leon Kim, che qui pare irriconoscibile. Forse per 'costruire' una figura paterna e matura gonfia i suoni, li spinge, in un canto che a volte si fa belluino suo malgrado.
Il resto del cast, invece, ha dato momenti di ottimo teatro, a partire dal Gastone di Mauro Secci, disinvolto in scena, dalla voce ben proiettata e di ottima grana; accanto a lui Nicola Ebau (Barone Douphol), Andrea Tabili (Marchese d'Obigny), Mattia Denti (dottor Grenvil), Moreno Patteri (Giuseppe), Alessandro Frabotta (un domestico/un commissario), Marina Ogii (una Flora Bervoix perfettamente in parte), Carlotta Vichi (Annina, funestata da una risataccia ovviamente richiesta dalla regia alla consegna della lettera di Violetta).
Il coro, preparato da Giovanni Andreoli, di ottima resa vocale, ha anche assecondato con disinvoltura le indicazioni registiche di Brockaus che ha reso il loro muoversi ed agire con estrema naturalezza, affidando loro azioni e gestualità ben definite.
Della produzione, si è detto: di proprietà della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi e dell'Arena Sferisterio di Macerata, ha storia trentennale e spesso ha girato per teatri. Non mi soffermerò sull'allestimento, davvero arcinoto, ideato da Josef Sbovoda, se non per sottolineare che il finale, in cui lo specchio pian piano riflette la sala illuminata, è a mio avviso drammaturgicamente inessenziale; il pubblico, distratto dal voler ritrovare la propria immagine, finisce col perdere l'incanto e la bellezza del finale ideato da Verdi. Si guarda lo specchio e non si osserva più la scena. Resta da dire che Henning Brockaus è anche autore di un magnifico uso delle luci, che i costumi sono in linea con la regia (opera di Giancarlo Colis; da segnalare il bellissimo e ampio abito rosso nella scena di zingarelle e 'mattadori', esasperato nella sua bellezza mobile dalla visione nello specchio) e le misurate coreografie di Valentina Escobar.
Sul podio, Beatrice Venezi.
Sergio Albertini