L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Una notte all'opera

di Roberta Pedrotti

L'accostamento di tre titoli spesso considerati variamente marginali nel catalogo e nelle fortune rossiniane può far discutere, ma stimola anche riflessioni sul modo di intendere oggi la poetica del compositore pesarese. Anche Adelaide di Borgogna merita consensi sul piano musicale, mentre il concetto teatrale di Armaud Bernard ispira qualche considerazione.

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PESARO, 13 agosto 2023 - Questo quarantaquattresimo Rossini Opera Festival non presenta una programmazione facile, immediata, non comprende titoli di particolare richiamo fuori dalla cerchia dei rossiniani indefessi. Questi però possono divertirsi a confrontare tre opere rimaste, per un motivo o per l'altro, ai margini della Renaissance, che ha teso a privilegiare finora soprattutto gli esiti più eclatanti della produzione francese e napoletana. Eduardo e Cristina, scritta per Venezia, Adelaide di Borgogna, per Roma, e Aureliano in Palmira, per Milano, non solo si trovano strette fra capolavori di gran peso, ma condividono tra di loro e con essi molta musica – poco importa se concepita per le une o per gli altri. Tra loro condividono anche un medesimo schema: coppia amorosa composta da soprano e contralto contrastata da un tenore, personaggi regali e lieto fine con il trionfo della più nobile virtù. Questa omogeneità può essere oggetto di discussione (non peregrina), ma anche di interessanti riflessioni.

Si pone il problema della restituzione teatrale per il pubblico e la sensibilità odierna di questa drammaturgia, di queste forme; prendiamo proprio Adelaide di Borgogna, in cui una sorta di fiaba cavalleresca con damigella in pericolo, prode cavaliere, amor cortese e infidi nemici si sovrappone a una vicenda strettamente politica, in cui le alleanze anche matrimoniali hanno come posta in gioco la corona d'Italia e finanche del Sacro Romano Impero. È chiaro che, allora, si esprimano valori ben precisi di onore, lealtà, amor filiale in contrasto con altri sentimenti, si sviluppino confronti diplomatici in cui i sottintesi sono più delle cordiali parole di circostanza (esemplare in tal senso il sottilissimo duetto “Vive Adelaide in pianto”). Possiamo trovare il modo di crederci, di dar credito e senso a questo contesto etico nella nostra percezione contemporanea? Questo è senz'altro un quesito che l'interprete si deve porre. Di pari passo va la consapevolezza che nove lustri (se ci si ferma al solo Festival) di riscoperte, esperienze e studi dovrebbe aver costruito in termini di poetica rossiniana, vale a dire lo spessore del comico e del tragico che spesso giungono a lambirsi l'un l'altro, con effetti di modernissimo straniamento. Questo non sarebbe tale se, banalmente, il dramma fosse solo sarcastico distacco e leggera ironia: il Rossini serio è serissimo, ma, pure, in esso si può insinuare, come una tabe, un dubbio alienante sospeso fra realtà e finzione, un'astrazione o un sorriso spiazzante. Ridurlo solo a un gioco può funzionare, ma può anche voler dire scegliere la via più facile, non la migliore.

Tali considerazioni si affacciano alla mente assistendo alla nuova produzione di Adelaide di Borgogna firmata per il Rossini Opera Festival da Arnaud Bernard che, tutto al contrario di uno Stefano Poda avulso dall'azione in Eduardo e Cristina, nella vicenda mette ampiamente le mani. Lo fa con ottimi collaboratori (Alessandro Camera per le scene, Maria Carla Ricotti per i costumi, Fiammetta Baldiserri per le luci) e una cura maniacale di dettagli e controscene, ricorrendo all'arcinoto cliché del metateatro, della sovrapposizione delle vicende private degli interpreti con quelle rappresentate (la primadonna è tradita dal tenore e intraprende una relazione con il mezzosoprano), dell'accostamento fra un allestimento iper tradizionale (magnifici i fondali dipinti, caricaturali i gesti) e la quotidianità contemporanea. Nulla di nuovo sotto il sole, insomma, realizzato ad alto livello, ma senza predisporre un'arcata che veda lo spettacolo comporsi o scomporsi gradualmente, semmai pigiando sovente il pedale della comicità. Fare ironia va benissimo, ma ci si chiede se questo non nasconda una certa sfiducia nell'opera e un'eccessiva semplificazione della complessità del testo. Ci si chiede se non sia possibile provare a prendere sul serio un Adelberto lacerato fra la salvezza del padre e l'amore per una donna in un'aria di aulico virtuosismo o un'Adelaide che investe il suo cavaliere e attende trepida l'esito della battaglia da cui tutto dipende. Più che ambiguo e perturbante, il teatro di Bernard sembra perseguire una demitizzazione che alla fine trasforma solo l'opera seria in una commedia. Questa può essere anche assai ben congegnata e funzionare a meraviglia in teatro, ma è legittimo porsi la domanda della sua pertinenza alla poetica dell'autore in un festival che su questo stesso autore impone la riflessione. Ben venga, comunque, l'interrogativo senza il quale nessun progresso è possibile, perfino in uno spettacolo che ci fa chiedere se non sia riduttiva e fuorviante la tendenza a voler sempre scherzare (non ironizzare sottotraccia o insinuare prospettive stranianti) delle forme e dei topoi che un tempo erano intesi come seri in massimo grado.

Il rapporto stesso con la musica può risultare sbilanciato, là dove l'esagerazione caricaturale dello stereotipo si abbina alla più sublime espressione d'alto sentire o di sommi dilemmi. Per questo risulta ancor più lodevole la prova di Olga Peretyatko, eroina eponima in grado di cesellare un prezioso “Occhi miei piangeste assai” e intonare con fantasia di variazioni e autorevolezza d'accento “Cingi la benda candida” in un continuo movimento fra vita e finzione, persona e personaggio, dietro le quinte e ribalta, gesto quotidiano o esagerato. Colpisce molto positivamente anche Varduhi Abrahamyan, che troviamo molto maturata in questi ultimi anni; il rischio è che l'aria finale di Ottone sia messa in ombra dai fuochi d'artificio di quella di Adelaide che la precede, ma con piglio vario e fiero il mezzosoprano armeno lo ha superato senza difficoltà, completando un bell'equilibrio con la partner. Nondimeno, René Barbera convince pienamente nell'ostica parte di Adelberto, cui conferisce anche una certa dignità di fraseggio nel superare gli scogli vocali.

Merita poi una menzione d'onore la coppia regale composta dal Berengario di Riccardo Fassi e dall'Eunice di Paola Leoci: bene che si ripristinino le loro arie per quanto non rossiniane (né troppo belle) e dalla storia testuale ed esecutiva travagliata. Sono comunque occasioni non invasive di dar spazio a un basso e un soprano degni d'attenzione. I tenori Valery Makarov (Iroldo) e Antonio Mandrillo (Ernesto) completano la locandina con il coro del Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina e, al fortepiano per i recitativi (purtroppo lasciati alla tastiera sola), Michele D'Elia.

L'orchestra è quella Nazionale della Rai, che ci conferma come, al di là di quelle che possono essere umane variabili e delle difficoltà di strumentazione di alcune opere, il Rof abbia trovato nell'assetto attuale rassicuranti sicurezze in buca. Per di più, dopo un pure complessivamente apprezzabile Aureliano in Palmira, il ritorno nello stesso complesso in una partitura che ha moltissimo in comune con Eduardo e Cristina permette di apprezzare le differenze fra le concertazioni di Bignamini l'altra sera e, oggi, Francesco Lanzillotta. Questi ha inclinazioni più asciutte e analitiche, pur nella parallela propensione a sottolineare gli aspetti marziali e la nobiltà del linguaggio. Ne risulta un utile contrasto che completa, con l'accesa varietà di Petrou per Aureliano, un'interessante percorso attraverso diversi volti della poetica rossiniana pure in pagine simillime. Lo stesso percorso che ci troviamo a seguire fra compagnie sovrapponibili per ruoli, ma non per peculiarità, per allestimenti che pongono diversi e complementari quesiti sul teatro musicale.

E, anche stasera, il successo è grande per la musica, mentre per regia, scene e costumi si ripete la blanda contesa che in brevi istanti lascia il posto ancora al pieno consenso.


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