Ancora un Rigoletto al drive-in
di Stefano Ceccarelli
Rigoletto torna al festival estivo di Caracalla nella produzione di Damiano Michieletto, già vista al Circo Massimo nell’estate del 2020. A dirigere l’opera è Riccardo Frizza; nel cast vocale brillano Roberto Frontali (Rigoletto) e Zuzana Marková (Gilda).
ROMA, 10 agosto 2023 – Il festival estivo di Caracalla si caratterizza, quest’anno, per la presenza di un dittico verdiano, armonico e coerente: La traviata e Rigoletto. Opere molto vicine per intenti ed estetica, ambedue vengono presentate in regie che le traspongono nella contemporaneità; anzi, vengono ripresentate, dato che queste regie erano già note al pubblico romano. De La traviata si è già scritto (leggi la recensione). Questo Rigoletto è una ripresa di quello di Damiano Michieletto (2020), pensato per la cornice del Circo Massimo, nel pieno del periodo pandemico e con tutte le problematiche del caso. Riporto le parole che scrissi nella recensione a quella serata, con qualche lieve modifica (leggi la recensione).
Un grande schermo troneggia sulla parete/fondale. Lì vengono proiettate immagini riprese da operatori che si aggirano sul palcoscenico e seguono da vicino i cantanti e gli attori/ballerini. Tali immagini sono, ove necessario, integrate con del girato. Il tutto è molto ben fatto e realmente innovativo. Tale regìa nasceva anche dall’esigenza pratica di permettere a tutti gli spettatori del Circo Massimo, una location certo più grande e dispersiva di Caracalla, di non perdersi i particolari dell’azione scenica. L’innovazione di Michieletto, in sostanza, è quella di azzerare la differenza fra uno spettatore teatrale ed uno televisivo. Quasi come se fossimo tutti al Drive-in. La regìa di Michieletto, in generale, è intelligente e pure ironica, qua e là, il che non guasta mai. Il problema principale è la scenografia (Paolo Fantin). L’ambientazione risulta, infatti, monotona: uno spoglio parcheggio, macchine d’epoca, una giostra con i seggiolini volanti (chi di noi non ci ha fatto un giro da bambino?) – la casa di Rigoletto, per la cronaca. Tale monotonia, peraltro, non si spezza se non, un poco, nel III atto, quando viene portata in scena la roulotte di Sparafucile. Ciò che vivacizza il tutto è l’uso dello schermo, appunto, strumento grazie al quale Michieletto scontorna una regìa coerente, solida, che regala pure qualche momento di inaspettato lirismo. Il regista ha certamente saputo far ben recitare gli interpreti. Dato che l’ambientazione è un monotono parcheggio di macchine, Michieletto gioca di primi piani. I personaggi maneggiano in continuazione soldi, gioielli ed armi, in un mondo violento e sfrontato dove la vita umana conta ben poco. Il Duca di Mantova diventa un boss di strada donnaiolo e volgare (regala un anello di fidanzamento a tutte quelle che seduce); tutti i cortigiani sono i suoi scagnozzi e ogni personaggio femminile si trasforma in una prostituta o, comunque, in una donna asservita allo stereotipo maschile di predominanza e violenza. A tutto ciò (che non è certo un’assoluta novità), Michieletto aggiunge più di un tocco di pura poesia. A cominciare dal personaggio di Gilda, che assume una certa tridimensionalità rispetto alla dame blanche schiava dell’amore. Gilda disubbidisce al padre, va a divertirsi in discoteca (è lì che conosce il Duca e se ne innamora): pur essendo certamente una brava ragazza, sfugge al predominio ossessivo del padre, che la vede come sostituzione del suo unico amore, la moglie, irrimediabilmente perduta. La mamma di Gilda, che aleggia nel canto verdiano, viene immortalata da Michieletto in immagini delicate: una donna viene ripresa da una telecamera mentre gioca e si diverte in una soleggiata giornata in spiaggia. Anche se qualcuno non avrà gradito la cruda anticipazione del cadavere di Gilda, in bella mostra in un sacco di plastica dietro ad una macchina, l’idea di far cantare il duetto finale col padre ad una Gilda fantasma in abito da sposa è un coup de théâtre di notevole effetto. (E di fantasmi, dal sapore shakespeariano, Michieletto è ghiotto in questa produzione: Monterone viene giustiziato già nel I atto e riappare proprio sotto forma di fantasma, la seconda volta). Quanta poesia, poi, nel video in cui si rappresenta la morte della giovane: Gilda, in abito da sposa, si dirige in acqua verso un sole al tramonto, in una calda serata estiva. Pure, Michieletto non lesina particolari più forti. La maledizione, ad esempio, è icasticamente rappresentata da una serie di sacchi di fiori (ovviamente il fiore sta per Gilda; vi ricordate i celebri versi? «Veglia, o donna, questo fiore / che a te puro confidai»). Fra questi fiori si cela del sangue e su un letto di fiori si accascerà Rigoletto, alla fine, abbracciando il cadavere di Gilda.
La direzione di Riccardo Frizza rende sicuramente giustizia al capolavoro verdiano. Non si tratta solo di un doveroso rispetto filologico della partitura – le puntature sono quasi tutte evitate, le cabalette ripetute etc. –, ma anche della ricerca di un colore coerente, coeso; un colore, beninteso, non solamente scuro, disperato, ma anche dolcemente lirico. Infatti, la perizia e sensibilità di Frizza mi pare cogliersi meglio nei cantabili dei duetti o, in generale, nei momenti più lirici, dove il direttore lascia cantare le voci, allarga l’agogica e crea la magia. L’orchestra del Costanzi esegue bene, per quanto si sia potuto saggiare dall’ascolto sempre farraginoso a Caracalla, a causa dell’acustica precaria.
Nel cast emergono, nettamente, il Rigoletto di Roberto Frontali e la Gilda di Zuzana Marková. Frontali, da compassato uomo di palcoscenico qual è, regala una performance straordinaria, non solo a livello attoriale, ma soprattutto sul lato vocale. La sua voce, brunita, vibrata, granulosa, ma squillante, si adatta magnificamente alla parte. Eppure, sarebbe riduttivo lodare esclusivamente l’arte canora di Frontali, il quale sa recitare con la voce. Esempi se ne sono avuti a iosa, ma due vanno citati per la felicità del risultato: il suo «Pari siamo!» coglie ogni sentimento di Rigoletto (rabbia, paura, smarrimento), modulando volumi e dinamiche con sapienza teatrale, come pure nella cabaletta del secondo duetto con Gilda, l’altrettanto famoso «Sì, vendetta, tremenda vendetta», scandito all’inizio quasi sussurrando e crescendo in intensità a mano a mano che la rabbia sale ed esplode nella fantasia omicida. Frontali – come ho già detto – deliba anche la dolcezza del personaggio: il cantabile del primo duetto con Gilda («Deh non parlare al misero») è commovente, come pure l’aria «Cortigiani, vil razza dannata», dove allo squillo iniziale Frontali fa seguire un fraseggio dove rompe, quasi, la voce dalla commozione alla richiesta di sua figlia illesa (ed illibata: «al vegliardo la figlia ridate… etc.») – facendo piangere anche il pubblico. L’altra grande interprete sul palco è Zuzana Marková, la quale regala una Gilda convincente sul piano della recitazione (si ricordi il carattere ribelle che Michieletto ha pensato per la Gilda di questa produzione, un’adolescente irrequieta) e su quello vocale. La Marková vanta, infatti, una voce squillante, tersa nei vari passaggi, capace di infiorare abbellimenti con facilità. Indimenticabile il suo «Caro nome che il mio cor», fraseggiato con freschezza, agilità, pulizia, ma soprattutto con un’innocenza ed un fuoco, al contempo, che raramente si colgono in quest’aria che rischia di diventare, in molte performances, un mero (seppur bellissimo) esercizio di canto. Anche al netto di qualche durezza nella parte acuta, la Marková supplisce con una lettura indimenticabile. Così, pure, la cantante stupisce in positivo nei duetti. Nel primo duetto con Rigoletto, l’interprete inanella sciolte prodezze vocali; in quello col Duca fraseggia amorosa, morbida; nello straziante secondo duetto con il padre, colpisce per il fuoco che infonde nella lettura di «Tutte le feste al tempio». Si venga, ora, al nodo dolente della produzione: il Duca di Mantova di Ioan Hotea. Il tenore, dotato di una voce argentina, squillante, ma tutto sommato esile, mi pare fosse preoccupato più per la resa vocale, che non per una lettura coerente e non banale del personaggio. La sua performance, preoccupata di una dignitosa resa vocale, perde molto delle non banali sfumature di questo ruolo verdiano, brillante, luminoso, vittorioso quant’altri mai. Testimonianza palese ne è l’esecuzione della celeberrima canzone «La donna è mobile»: sforzata, poco brillante, non decolla né convince. Anche la partenza, poi, è poco felice; dopo un’esecuzione dignitosa di «Questa o quella per me pari sono», Hotea palesa problemi di intesa con la buca, scomparendo, quasi, nella stretta dell’introduzione («Ah sempre tu spingi lo scherzo»). Se c’è un punto della produzione dove fa bene è – fortunatamente – il bel quartetto del III atto («Bella figlia dell’amore»), nel quale appare rilassato, più nel carattere: le altre voci sono ottime e il risultato ragguardevole. Riccardo Zanellato canta uno Sparafucile centrato, cupo, inesorabile. Lo si ricorda, per fraseggio e colori, nel duetto con Rigoletto (I atto), ma pure nel III, al fianco di una Maddalena straordinaria: Martina Belli. La Belli, infatti, riesce a cogliere la sensualità volgare e sfacciata di Maddalena come poche prima di lei, sfoggiando un mezzo vocale pieno e duttile. Il Monterone di Dario Russo, benché non statuario a livello vocale, è abbastanza convincente. Infine, è bene ricordare anche il Coro del Costanzi, che continua a far bene in questo dittico verdiano: sia «Zitti, zitti, muoviamo a vendetta» che «Scorrendo uniti remota via» riescono naturali, ragguardevoli, per fraseggio e compattezza. Il pubblico, alla fine, applaude una produzione ben lungi dalla perfezione, ma che presenta elementi di indubbio interesse.