Senza grazia né malizia
di Roberta Pedrotti
Delude su tutti i fronti, nonostante alcune presenze di gran valore nel cast vocale, Le comte Ory al Comunale Nouveau di Bologna. L'allestimento di Hugo De Ana conferma l'impressione negativa suscitata a Pesaro e la bacchetta di Oksana Lyniv fatica non poco a muoversi nella poetica rossiniana.
BOLOGNA, 18 e 19 ottobre 2023 - Mentre a Gerusalemme si fa la guerra, a Formoutiers si fa l'amore. Là si brandiscono spade tinte di sangue, qui bottiglie dei migliori vini. In fondo, ma non troppo, abbiamo bisogno della lezione di questi giovanotti che rifiutano la guerra, rifiutano le crociate e celebrano la joie de vivre nell'eros; abbiamo bisogno dello sguardo rossiniano, che di situazioni potenzialmente grottesche se non grossolane (uomini travestiti da suore che si ubriacano e tentano di sedurre fanciulle: la comicità di bassa lega si potrebbe ammanire facilmente!) esalta i non detti, le sottili ambiguità, i profumi, il fascino, l'ebrezza leggera. Che capolavoro, Le comte Ory, inno alla pace e al piacere impareggiabile, ultimo lampo di sorriso teatrale prima del Guillaume Tell, ma anche una delle tappe senza le quali in mondo di Offenbach ci parrebbe impensabile.
Capolavoro difficilissimo, ça va sans dire. Lo dimostra la produzione bolognese che alla prima viene, infatti, salutata da qualche bu nemmeno troppo energico e una manciata rada di battimani stanchi e distratti.
Il problema sta in quello che dovrebbe essere il nerbo di ogni produzione operistica, vale a dire l'asse regia-concertazione. Nel primo caso, si tratta di una coproduzione con il Rossini Opera Festival e, sebbene già al debutto a Pesaro lo spettacolo avesse prestato il fianco a critiche [Pesaro, Le comte Ory, 09/08/2022], la tappa bolognese era già scritta, inevitabile. Semmai ci possiamo augurare che, ora, assolti gli obblighi, scene, costumi e attrezzeria pensati da Hugo De Ana vengano tosto avviati a una coscienziosa raccolta differenziata, dove possibile al riciclo.
Si invoca il nome di Bosch e il Fiammingo avrebbe ben ragione d'aggrottare le sopracciglia se la sua opera è coinvolta giusto per qualche citazione iconografica nel mezzo di un guazzabuglio insensato di colori, cose, epoche. La fiera del superfluo senza l'essenziale, con qualche trovata comica infantile (davvero dovremmo ridere se “Soeur Colette” fa il giro del palco in monopattino?), un irritante perpetuo balletto con coreografie sgangherate (perché pure in “ô terreur, ô peine extrême” tutti diventano marionette disarticolate? Perché poi tutto si trasforma in discoteca? Perché poi la scena è invasa da dinosauri?). E, nemmeno, una cifra estetica in qualche modo seducente: anzi, diciamocelo, è tutto proprio brutto, oltre che chiassoso e confuso. Per la cronaca, la ripresa della regia è a cura di Angelica Dettori, la revisione scene di Manuela Gasperoni, Greta Carmelini è l'assistente alle scene, Giulia Giannino ai costumi, le luci sono di Valerio Alfieri, i movimenti coreografici di Michele Cosentino.
D'altro canto, Oksana Lyniv non risolleva le sorti dello spettacolo, esponendo semmai una sostanziale distanza rispetto alla poetica di Rossini in generale e del Comte Ory in particolare. Alla prima, per di più, si percepisce una sensazione di precarietà e scarsa coesione con il palcoscenico che si ricalibra alla seconda recita, senza tuttavia riscattarsi pienamente. Il problema è proprio in nuce in una pesantezza battagliera che àncora al terreno quella che sarebbe la propulsione inafferrabile di un continuo levare; la cura indubbia di alcuni dettagli d'orchestrazione (divina in quest'opera) resta irrelata dal discorso generale e dalle ragioni del canto, sicché proprio quando la voce richiede spazio il podio sembra voler negarlo e stringerlo nelle schiere degli strumenti, invece di farsene complice. Ne soffrono non solo gli elementi più fragili, ma anche quelli più esperti del cast, tanto che alcuni scollamenti si avvertono netti in entrambe le sere.
Così, nei panni del protagonista, Antonino Siragusa può mettere in campo l'esperienza di uno dei tenori in attività in grado di vantare il maggior numero di titoli rossiniani affrontati e la tenuta vocale è sempre salda, ma si percepisce una certa cautela, come se non si sentisse pienamente a proprio agio e pronto a dare il meglio di sé. Nicola Alaimo è, pure, un Raimbaud di comprovata qualità, sebbene la sua verve si trovi qui un po' imbrigliata; Sara Blach impersona una splendida Adèle e, tuttavia, anche nel suo caso ricordiamo produzioni in cui vocalità, fraseggio e presenza d'attrice hanno potuto esprimersi in maniera molto più incisiva. Lamia Beuque ha tutte le carte in regola per essere un ottimo Isolier e pure Davide Giangregorio come Gouverneur offre una prestazione in linea con il buon livello del primo cast. La compagnia alternativa si pone generalmente un passo indietro, senza trovare molti aiuti e sostegni da podio e regia e talora senza le spalle abbastanza larghe in esperienze e qualità specifiche per farsi strada ugualmente. Sicché, César Cortés è un Ory piuttosto titubante nella cavatina, più sciolto poi, ma senza mai emergere, mentre Olga Dyadiv è un'Adèle sempre un po' spigolosa. Entrambi paiono in questa recita troppo esili rispetto alle esigenze delle rispettive parti.
Francesco Samuele Venuti è un puntuale Raimbaud, che purtroppo pare costretto a una corsa a ostacoli nell'inseguimento dell'implacabile orchestra nella sua aria. Se, poi, il Gouverneur di Adolfo Corrado con il suo vocione in Rossini rischia l'effetto “elefante nella cristalleria”, Giuseppina Bridelli quale Isolier è sempre una garanzia di stile.
Non mutano nel corso delle recite la Ragonde della caratterista Caterina Dallaere, l'Alice di Silvia Spessot, il Paysan di Gianluca Monti e lo Chevalier di Pietro Picone. Il coro è ben preparato da Gea Garatti Ansini, sebbene si sia già detto che soprattutto alla prima non sempre l'esecuzione complessiva abbia brillato per precisione e scioltezza.
Pubblico comprensibilmente gelido al debutto, più generoso alla replica. Ora tutti meritiamo un avvenir migliore.