L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vittime senza vendetta

di Roberta Pedrotti

Accoglienza trionfale, a Wexford, per La Ciociara di Tutino, con cui culmina l'esplorazione del tema conduttore del Festival 2023: Women & War. Na'ama Goldman e Jade Phoenix guidano un cast perfettamente assortito sotto la guida musicale di Francesco Cilluffo e teatrale di Rosetta Cucchi. 

Wexford, Zoraida di Granata, 31/10/2023 

Wexford, L'aube rouge, 01/11/2023

Wexford, Lunchtime recital e Pocket Opera, 01-02/11/2023

WEXFORD 2 novembre 2023 - Sì, da noi non s'usa, ma nei paesi anglosassoni può capitare che il pubblico contesti gli interpreti dei personaggi negativi, premiando in questo modo la bravura nel renderne la sgradevolezza, quando non proprio il disgusto. Succede a Wexford, quando, alle uscite finali della Ciociara, i tre soldati marocchini stupratori (Meilir Jones, Christian Loizou e Will Searle) e il feldmaresciallo nazista Fedor Von Bock (Alexander Kiechle) vengono accolti da un sordo e cupo buu collettivo. Ciò conferma che sono stati interpreti eccellenti dei rispettivi, riprovevoli, ruoli, così come lo è stato Devid Cecconi, parzialmente graziato per essersi presentato in proscenio già ironicamente sulla difensiva. E, dopotutto, anche questo è in linea con il suo personaggio, Giovanni, laido profittatore, violento e vigliacco, fascista perfetto fino al midollo e quindi prontissimo a cambiar bandiera e rinnegare il passato. È il peggiore di tutti e, difatti, è quello che riesce a cavarsela.

L'empatia che il pubblico di Wexford mostra con la rappresentazione è il segnale più tangibile del suo successo, ma anche di un contesto in cui l'opera si gusta davvero, con autentica disponibilità e curiosità, pronti a conoscere e a entrare in sintonia con un Donizetti dimenticato da duecento anni, con un romanzo d'amore e politica dei primi del secolo scorso o con l'opera di un autore vivo e vegeto ambientata sul finire della seconda guerra mondiale. Si empatizza tanto che quando, a Liberazione avvenuta, Giovanni è smascherato e rischia il linciaggio si desidera ardentemente vederlo morto. Quasi si fatica ad accogliere le ragioni di Cesira che invoca la fine della violenza, poi si pensa a quel che avvenne a Liliana Segre, quando ebbe l'occasione di uccidere un soldato nazista ma si fermò per “non diventare come loro”. Verissimo, giustissimo, però astenersi dalla vendetta, non rendersi uguale al mostro avrebbe dovuto voler dire pure mettere al bando senza indulgenza alcuna ciò che è incompatibile con la civiltà e non può essere sdoganato come “libertà di pensiero”. L'attualità rende ancor più amare queste considerazioni, ancor più vibrante la partecipazione al dramma del romanzo di Moravia, del film di De Sica, dell'opera di Tutino.

Un'opera, questa su libretto di Fabio Ceresa e Luca Rossi, che non prende parti se non quelle di Cesira e Rosetta, vittime universali, e non si prende altra briga che di dar loro voce e raccontare una storia in scena e in musica. La creazione a San Francisco (2015) e poi a Cagliari (2017) sembrava focalizzarsi sul protagonismo carismatico di Anna Caterina Antonacci e questa ripresa, con un cast quasi completamente diverso (Cecconi era stato Giovanni anche in Sardegna), si presentava come la prova del nove per La Ciociara sul palcoscenico. I conti tornano, perché Na'ama Goldman è una Cesira di grandissima intensità, affilata nell'articolazione, insieme spossata e aggressiva, immediatamente riconoscibile nel colore che aderisce come un guanto alla parola e alla situazione. E tornano perché accanto a lei c'è la Rosetta di Jade Phoenix, già apprezzata lo scorso anno come Ariele nella Tempesta di Halévy [Wexford, La Tempesta, 24/10/2022] e viepiù maturata come artista, in possesso di un'emissione dolce e morbida, di un timbro pieno e luminoso che non ne limitano le sfumature interpretative, ma creano semmai un'avvincente complementarietà con la vocalità più screziata di Goldman. Leonardo Caimi, come Michele, rappresenta la possibile banalità del bene, un uomo, sì, istruito ma senza particolari qualità che diventa martire ed eroe semplicemente perché sceglie di fare la cosa giusta. Non è scontato e ce lo sbatte in faccia Pasquale Sciortino, Conor Prendiville, collaborazionista per ignavia insieme con la madre Maria (Erin Fflur), preoccupata solo di cucinare, nella suo impeccabile sala da pranzo, incurante della sorte degli antifascisti finiti nella tela del ragno. Con loro la Lena di Carolyn Dobbin, il soldato americano John Buckley di Allen Boxer, Julian Henao Hernadez (un ragazzo), Grace Maria Wain (una popolana), il coro e i danzatori (Luisa Baldinetti, Andrea Bassi, Roberto Capone, Yaimara Gomez Fabre, Myriam Tomé e Andrea Zanforlin) popolano la scena facendo vero teatro, dando vita vera a ogni personaggio, anche a quelli anonimi. Rosetta Cucchi (coadiuvata da Claudia Pernigotti per i costumi, Tiziano santi per le scene, Daniele Naldi per le luci) si conferma abilissima regista, sensibile – per la sua formazione e prima carriera pianistica – alla musica e alla sua sostanza teatrale. La cura del dettaglio non è, difatti, calligrafia, bensì una complessa partitura di gesti, relazioni e sentimenti interiorizzati sul sottile crinale fra realtà e sublimazione artistica. L'attore Peter McCamley che assiste nelle vesti di Vittorio De Sica e alcune sequenze filmate rimandano al cinema, ma come a dirci che dietro all'opera, alla celluloide, alle pagine del romanzo, ci sono vita e dolore veri. Così, nel sangue fremiamo e con il cervello razionalizziamo, vorremmo morto Giovanni e sappiamo che un fascista non merita che ci abbassiamo al suo livello. Così vediamo apparire un'intensissima Yaimara Gomez Fabre a incarnare quasi le vittime di ogni guerra, ogni ingiustizia, ogni discriminazione.

La stessa profondità di lettura si percepisce, in perfetta sintonia, nella concertazione di Francesco Cilluffo, protesa a una cura sinfonica dei colori, delle dinamiche e dei temi (basti pensare a come sono trattate allusioni a motivi popolari, per esempio quando fa capolino, trasfigurata, Malafemmina) e, pure, appassionata nel suo piglio narrativo, teatralissima, plastica e non effettistica grazie anche all'impegno dell'orchestra del Festival, capace di passare da un giorno all'altro da un secolo all'altro, da un genere e uno stile all'altro.

La tensione e il pathos passano direttamente nel pubblico, l'azione si segue senza cali d'attenzione, si condividono i sussulti autentici dei vicini di posto. Diventerebbe speculazione superflua, allora, inerpicarsi in considerazioni estetiche sulle scelte armoniche, strutturali, drammaturgiche di Tutino e dei suoi librettisti: l'opera sulla scena funziona, non dipende più dalla diva creatrice ma vive con cast, direttore e regista convinti e capaci. Possiamo ben dirlo, il pubblico di Wexford questa sera si lascia andare in quello che ha i contorni di un trionfo.


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