Hybris e catastrofe
di Roberta Pedrotti
Il diluvio universale di Donizetti è una bella scoperta del festival bergamasco che vede spiccare le prove di Giuliana Gianfaldoni, Enea Scala e Nahuel Di Pierro sotto la direzione di Riccardo Frizza. Desta invece perplessità l'allestimento scenico di MASBEDO.
Bergamo, Lucie de Lammermoor, 18/11/2023
Bergamo, Alfredo il Grande, 19/11/2023
BERGAMO 17 novembre 2023 - La notizia potrebbe essere che alla fine dello spettacolo gli artefici della parte teatrale dello spettacolo sono stati vigorosamente contestati. Potrebbe, e sarebbe facile puntare tutto sull'esca della polemica: invece la notizia è che il festival Donizetti ha aperto la sua edizione 2023 con una bellissima riscoperta e che, semmai, bisogna lodare il rispetto che il pubblico ha dimostrato lasciando procedere la prima indisturbata – anzi, punteggiata da meritati applausi a scena aperta per gli interpreti – per dar voce ai dissensi solo al momento delle uscite finali.
Abbiamo, così, ben potuto apprezzare Il diluvio universale nell'originaria versione napoletana del 1830, che rispetto alla revisione genovese del 1834, testimoniata da sporadiche riprese, ridimensiona la parte della seconda donna ed evita i temi che nel frattempo erano confluiti in Anna Bolena ed erano già noti in quella veste nella città ligure (per la quale, viceversa, si può innestare musica proveniente da Lucrezia Borgia: l'originalità e l'unicità sono chimere che è meglio mettere da parte in favore della funzione nell'equilibrio di un testo). Il modello che subito balza alla mente è quello del Mosé in Egitto rossiniano, del quale il lavoro di Donizetti pare essere fedelissimo epigono, con parallelismi strutturali e drammaturgici al limite del calco. Non stupisce, perché l'opera napoletana del 1818/19 resta ai nostri occhi senz'altro il più illustre alfiere del genere dell'azione tragico sacra, provvido soccorso delle stagioni operistiche in tempo di quaresima, ma in realtà per nulla penitenziale. Anzi, il soggetto biblico era il più sicuro di fronte alla censura e offriva un amplissimo ventaglio di situazioni estreme, sia per le passioni sia per la spettacolarità, presentando alla sfida concreta del palcoscenico quel che nell'oratorio restava audacia teorica – potendosi permettere quest'ultimo di evocare senza mostrarle immagini al limite dell'irrapresentabile per pudore o scenotecnica. Non si deve, però, incorrere nell'errore di ragionare solo per conclamati capolavori e leggere Il diluvio solo in funzione del modello Mosé e del venturo Nabucco, semmai riconoscere anche topoi di un genere e gli elementi più significativi dell'opera che stiamo ascoltando. Questa nell'orchestrazione mostra come Donizetti abbia pienamente metabolizzato le caratteristiche e la tradizione dei complessi napoletani sviluppando una scrittura di grandissima finezza per rapporti timbrici e dettagli solistici. I modelli, è chiaro, sono un punto di partenza, un linguaggio consolidato che tuttavia si evolve, come si evince dal trattamento dei temi, dall'ispirazione melodica, dalla costruzione di numeri sempre più ampi e articolati, in cui il virtuosismo può essere patetico e nervoso, ma non spericolato, mentre l'arioso guadagna spazio nella distinzione sempre più sfuggente fra recitativo e cantabile. La contrapposizione, poi, fra dramma corale e privato, fra fedeli e infedeli prende forma potente nel gruppo omogeneo della famiglia di Noé (ufficialmente personaggi distinti, nei fatti quasi sempre espressione collettiva) e nella corte di Cadmo, protervo e perverso baritenore conteso fra la doppiogiochista Ada e la lacerata consorte Sela, che pur professando fede nel dio di Noé finisce per rinnegarlo e maledirlo – morendo, letteralmente, “di bestemmia”, senza interventi sovrannaturali – per amore disperato del marito e del figlioletto.
In una parte di tale impegno drammatico, Giuliana Gianfaldoni offre una prova di grande maturità. Che cantasse bene lo si sapeva da tempo, ma non è questa la scrittura che sembra permetterle di sfoderare le sue armi più note: l'abbandono cantabile in cui giocare sui filati è limitato, la tessitura più bassa di quella in cui siamo abituati a sentir espandere la sua voce. Eppure, non la sentiamo mai giocare in difesa, bensì sempre padrona della situazione con invidiabile souplesse, bella musicalità, accento ben dosato per risultare incisivo e convincente pur nella continua varietà delle passioni, da regina sicura di sé e della sua fede a madre e donna innamorata in preda a un turbine di sentimenti contrastanti, tradita, quasi delirante, battagliera, ma infine spezzata nell'estremo sacrificio dell'abiura. La si potrebbe ben definire la trionfatrice della serata, se la palma non fosse felicemente divisa con Enea Scala e Nahuel Di Pierro. Il primo è un Cadmo di sfacciata tracotanza, capace di infondere sempre nuova energia in un personaggio che rischierebbe facilmente di apparire monotono, non essendo mai (a differenza dei vari Baldassare, Faraone, Nabucco) pervaso da un dubbio o un'inquietudine, semmai ferito nell'orgoglio per il supposto tradimento di Sela, ma proteso comunque ad accumulare nefandezze senza la minima sensibilità nemmeno per il figlio. Da parte sua, Di Pierro gioca sul contrasto e non punta su un Noé di profetica imponenza, bensì sull'eleganza ispirata di una levigatissima linea di canto, suo indubbio punto di forza.
Con loro sono schierati alcuni allievi della Bottega Donizetti, come la Ada di Maria Elena Pepi, il Cam di Eduardo Martínez,il Sem Davide Zaccherini e la Tesbite di Sabrina Gárdez. Artoo, secondo tenore e seguace di cadmo (da libretto “capo dei bracmani dell'Atlantide”) è Wangmao Wang, Jafet, cui spetta qualche nota solistica in più rispetto a fratelli moglie e cognate, è Nicolò Donini, Asfene Erica Artina, Abra Sophie Burns. Bene il coro dell'Accademia della Scala (maestro Salvo Sgrò) e molto bene l'orchestra Donizetti Opera guidata con mano sicura da Riccardo Frizza, che opta per una lettura severa, che enfatizza un certo qual rigore ieratico nell'articolazione formale, nel segno di una tragedia incombente e ineluttabile.
Questa, nella lettura teatrale del duo MASBEDO, è perfettamente sovrapponibile all'attuale situazione ambientale e climatica. In effetti, l'immagine di un'umanità che gozzovigliando sfida e irride ogni monito divino e va incontro alla catastrofe del diluvio può essere una palese metafora del nostro consumare le risorse del pianeta noncuranti delle conseguenze: l'idea è pertinente, anzi, persino ovvia. Il punto sta nella realizzazione, distribuita fra due piani, nessuno dei quali pienamente convincente. Da un lato c'è la recitazione effettiva di solisti e coro sul palco, per lo più stretta in proscenio senza troppe sorprese o suggestioni intriganti (pazienza, l'impianto oratoriale dell'opera lo consente), semmai con qualche goffaggine, come quando un a parte che Sela e Ada dovrebbero sussurrarsi di soppiatto rimbalza invece fra l'una protesa verso il pubblico e l'altra che la raggiunge dal fondo del banchetto districandosi fra gli ospiti. Dall'altro ci sono le videoproiezioni, cifra distintiva di MASBEDO e corroborate dalla presenza di un drammaturgo visivo, Mariano Furlani: qui la costruzione di una narrazione parallela sullo schermo sfrutta spesso associazioni di idee quasi didascaliche, che rischiano lo stereotipo e nel sovraccarico finiscono per sovrastare sia l'azione musicale sia il messaggio stesso che si vuole veicolare. Arrivare al diluvio nell'accumulo incosciente di crapule e rifiuti, disprezzando ogni misura e buon senso dovrebbe essere una progressione angosciante e ben dosata, che invece arriva quasi subito al parossismo ridondante e perde di efficacia, in una frenesia che distrae più di quanto non scuota. Insomma, l'idea di fondo è la più condivisibile, la scelta di unire l'opera con altre forme d'arte visiva è coerente con la natura di un festival, l'attenzione del pubblico durante tutta la recita denota maturità e rispetto, le contestazioni finali fanno parte del gioco di un teatro vivo che si mette in discussione e fa discutere, e si possono condividere. Non mettono, peraltro, in ombra l'interesse dall'opera riscoperta, la qualità dell'esecuzione, il valore di un'operazione che si irradia in relazioni extra teatrali. Non si tratta solo dell'uso di alcune immagini pittoriche esposte all'Accademia Carrara nella mostra Tutta in voi la luce mia. Pittura di Storia e Melodramma, ma anche della possibilità di visitare, in città alta, un Museo di Scienze naturali in cui le creature dell'Arca e quelle spazzate via da catastrofi o incoscienza umana ci sono esibite sotto gli occhi, come la straordinaria avventura dell'esploratore bergamasco Costantino Beltrami – celebrato anche a Macerata, per i suoi legami strettissimi anche con le Marche – o i danni da saturnismo subiti dagli animali a causa dei pallini di piombo sparsi nei boschi dalle cartucce dei cacciatori. E i resti di creature un tempo vive non sono così diverse dalle porzioni di corpi umani mummificati nella collezione egizia del Museo Archeologico. L'opera non è solo nel tempo della rappresentazione fra le mura del teatro. Il museo non è solo una passeggiata fra teche inerti. Un festival, non è solo un calendario fitto di eventi.