Il rito del pianoforte
di Roberta Pedrotti
Grigory Sokolov si immerge, al Regio di Parma, in Purcell e Mozart, prima di spaziare nella consueta serie di bis, che suggellano un rapporto intimo e privilegiato fra l'artista, la musica e lo strumento.
Il concerto è un rito che ciascuno officia a modo suo. C'è chi cerca il contatto con il pubblico, c'è chi studia gesti e atteggiamenti empatici e chi, al contrario, sfronda tutto quel che non è strettamente legato all'esecuzione. È questo il caso di Grigory Sokolov, per il quale perfino i pochi metri che separano le quinte dal pianoforte sembrano un male necessario da sbrigare il più rapidamente possibile, l'inchino per gli applausi un dovere di cortesia vissuto con qualche disagio. Non stupisce che ormai tenda a impaginare programmi senza soluzione di continuità, con successioni di grandi arcate eseguite senza pause, inchini, entrate e uscite. Anche questo è un rito, è, a suo modo, spettacolo: la celebrazione di un pianismo ascetico, autosufficiente, di una meditazione sulla musica come flusso continuo.
Oggi, questo flusso attraversa, per Sokolov, la musica cembalistica di Henry Purcell: Ground in Gamut, Suite n.2, A new irish Tune (Lilliburlerò), Trumpet Tune, Suite n.4, Round O, Suite n. 7, Chacone. La concatenazione sembra procedere per rapporti tonali: sol maggiore, sol minore, sol maggiore, sol maggiore, do maggiore, la minore, re minore, re minore, sol minore. Associazioni che suonano abbastanza familiari, queste, mentre nella seconda parte, tutta mozartiana, il passaggio dal Si bemolle maggiore della Sonata n. 13 al Si minore dell'Adagio KV 540 appare ben più audace, tanto che qui Sokolov si concede pausa e applauso di cesura.
Scrittura colta, quella di Purcell, ma non trascendentale, semmai incline ad accogliere temi e ritmi della tradizione popolare. Sokolov vi si immerge totalmente, sembra quasi un tutt'uno con lo strumento mentre fa scorrere uno dopo l'altro, uno dentro l'altro i movimenti delle Suite e le singole pagine. Nelle prime battute le note rimbalzano definite e perlacee per poi crescere di spessore in una sorta di reinvenzione pianistica della scrittura cembalistica in cui il pedale serve non a inturgidire il suono, quando a rafforzare il tessuto contrappuntistico, come un registro d'organo, un'idea di ripieno. Il percorso interiore tracciato da Sokolov inanella quasi quaranta minuti ininterrotti e quasi ipnotici nel loro risultare continui, compatti e omogenei e nel loro comprendere un gioco personalissimo di sottolineature armoniche e gradazioni timbriche.
Dopo l'intervallo, sembra di essere trasportati in un altro pianeta: è passato quasi un secolo, il pianoforte si sta affacciando alla ribalta, lo stile galante è apparso e sta tramontando – o si sta evolvendo – verso altri orizzonti. Sokolov accarezza questo Mozart con grazia affettuosa, ma nella cura di ogni accento e della definizione dinamica di ogni singola nota, nella naturalezza con cui il timbro prende forma e il fraseggio prende energia si percepisce la chiarezza di visione del grande musicista, capace di concedersi una dialettica sfumatissima fra i movimenti (Allegro, Adagio cantabile, Allegretto prima, Adagio poi). Anzi, l'ispirazione poetica sembra emergere quasi più nei due tempi estremi della Sonata, per lavoro di cesello sincero e mai lezioso, che non nel ripiegamento, pur prezioso, delle agogiche più distese. Anche qui, mutatis mutandis, si rimane comunque colpiti dalla capacità di coniugare omogeneità e varietà.
Come sempre, poi, Sokolov è qui per suonare, non per inchinarsi e ringraziare con api gesti. Lui ringrazia continuando a fare ciò che sembra parte imprescindibile del suo essere, fulcro intorno al quale tutto è superfluo. La sequela di bis è attesa e appagante. Dal flusso continuo monografico, dall'impaginato programmatico nella fusione di pagine concatenate, ecco piccoli quadri autonomi, miniature poetiche in cui il pianista esplora quella varietà espressiva e tecnica che la monografia ascetica aveva messo per un momento da parte. Si cambia la prospettiva, resta l'artista, che passa dal secondo dei tre intermezzi op. 117 di Brahms a due Mazurke (op. 30 n. 2 e op. 68 n.2) e un preludio (op. 28 n.20) di Chopin e un preludio (op. 23 n. 2) di Rachmaninov per chiudere con il classico Bach rivisto da Siloti. Elasticità dinamica e di fraseggio sempre amministrata con gusto, padronanza di colori, tocco (di dita e pedale) di straordinaria sensibilità coloristica mettono in secondo piano la percezione di una certa stanchezza a fine serata. Quando al centro dell'attenzione c'è un rapporto privilegiato e privato con la musica e lo strumento, tutto sta nell'entrare in contatto con esso e il resto, i limiti umani, o passano in secondo piano o diventano parte di questo rapporto.