Generazioni in fieri
di Roberta Pedrotti
La prima di Otello diretto da Zubin Mehta (classe 1936) è preceduta da un concerto che vede sul podio Diego Ceretta (1996) e solista al violoncello Julia Hagen (1995).
FIRENZE, 19 maggio 2023 - Naviga in acque complicate – si sa, e si sa pure che può sembrare un eufemismo – il Maggio musica fiorentino. Questioni amministrative e di bilancio, certo, ma anche artistiche per una manifestazione che indubbiamente inanella appuntamenti di tutto rispetto e sovente lussuosi, ma deve anche riaffermare, al di là della singola opera o concerto, un progetto e un'identità. Chi si ricorda quando il Comunale aveva la sua stagione e poi il Maggio era un vero e proprio festival ben distinto? Oggi la sensazione è di etichette che scandiscono un flusso continuo in cui varie rassegne cercano una più precisa distinzione e riconoscibilità. E, tuttavia, il lavoro prosegue, fitto, con impegno e risultati di livello.
Mentre ferve l'attività del convegno dedicato a Maria Callas – essendo stata fra i relatori, è buon gusto astenersi dai commenti, ma almeno si dica che è ottimo segno quando un teatro organizza incontri e approfondimenti di questo tipo – il calendario affianca la prima di Otello con Zubin Mehta sul podio a un concerto diretto da Diego Ceretta. Significativo accostamento, se si pensa che sessant'anni tondi tondi separano le due bacchette, rispettivamente classe 1936 e 1996. Il pubblico festeggia entrambi e tributa l'omaggio caloroso al decano che quasi miracolosamente ancora regge sulle sue spalle un susseguirsi serrato di date e programmi ponderosi; al debuttante nel cartellone del Maggio dà un benvenuto quanto mai intenso e festoso. Ovazioni per entrambi, fra gratitudine per il passato e proiezione verso il futuro. Da un lato, dettagli di gran classe e qualche fisiologica caduta di tensione in una prima in cui, al di là degli avvicendamenti nel cast rispetto alla locandina prevista, sconcerta come si sia potuta dimostrare dalla sfiducia nel poderoso attacco verdiano facendolo precedere e depauperare nella regia di Valerio Binasco da un inutile tuono. Dall'altro, un impaginato che allinea il Concerto per violoncello n. 1 di Šostakóvič e la Sinfonia Dal nuovo mondo di Dvořák permette di approfondire l'analisi di uno dei nomi emergenti più interessanti della nuova generazione.
Ceretta si conferma musicista solido, preparatissimo, dal gesto chiaro e autorevole. La sicurezza tecnica desta ammirazione, così come il dipanare preciso del dettaglio di fronte a un organico vasto e a partiture complesse e insidiose. Le premesse, insomma, sono ottime: non è solo dotato di innata predisposizione, ma si applica, e con profitto. Ora, quel che il tempo dovrà far emergere è la sua vera personalità, ché dal questo punto di vista sembra di trovarsi ancora su un sentiero in divenire, se non a un bivio. L'impressione è evidentissima nell'approccio a Šostakóvič, in cui tutte le difficoltà esecutive sono sostenute prontamente, ma la ricerca d'esattezza rischia di ricondurre il Concerto in un'estetica neoclassica stravinskijana, mettendo un po' da parte il pathos tormentato del testo, la sua profondità espressiva. Questo scavo fra colori e articolazioni, fra abbandoni lirici, sferzate drammatiche e sbalzi sarcastici potrà evolversi in futuro dandoci la misura della prospettica del concertatore, ma può anche darsi che il suo sguardo proceda in una direzione analitica, chirurgica e pure in questo caso potranno esserci sviluppi interessanti.
Al momento, questo Šostakóvič cristallizzato crea un curioso rapporto con la morbidezza del suono di Julia Hagen, violoncello solista dalla spiccata sensibilità per il legato, ma capace anche di un'articolazione mordente in un fraseggio teso e vibrante, che entra in contrasto dialettico con la geometria dell'orchestra, ma pure, così ben tornito nel timbro, si trova in sintonia con i colori ben distinti e delineati delle varie sezioni e dei soli. Il bis bachiano conferma la qualità della ventottenne salisburghese sia sul piano musicale sia su quello tecnico, per cura del suono e gusto nell'articolazione.
Dopo l'intervallo, anche Ceretta ribadisce di saper gestire senza problemi anche una sinfonia delle proporzioni della nona di Dvořák, senza affidarsi passivamente alla qualità dell'Orchestra del Maggio o abbandonarsi a facili effetti. Basti pensare all'ultimo movimento per avere la misura dell'equilibrio e della lucidità di visione del direttore, sebbene anche in questo caso l'ammirevole rifuggire ammiccamenti ruffiani abbia come rovescio della medaglia un riserbo forse eccessivo là dove si potrebbe dar maggior respiro alle suggestioni esotiche (americane, sì, ma anche slave) dell'impianto tematico. Le premesse per una bella carriera ci sono tutte, non resta che osservare con attenzione e speranza le strade che prenderà e affinerà sia nel taglio interpretativo sia nelle scelte di repertorio. Constatata la padronanza dei mezzi, insomma, attendiamo con fiducia l'affermazione piena della personalità. Intanto ci si gode questa serata e l'abbraccio di un pubblico esultante nella sala intitolata (in vita) proprio al decano Mehta: che sia di buon auspicio? Lo auguriamo di tutto cuore.