I volti del destino
di Luigi Raso
Riccardo Muti e l'Orchestra Giovanile Luigi Cherubini a Pompei per Le vie dell'amicizia fra Brahms, Gluck e Bellini e la musica mediorientale.
POMPEI, 11 luglio 2023 - Perdita, nostalgia, dubbio, smarrimento, speranza di pace, e destino. Tra queste coordinate è racchiuso l’eterogeneo programma del concerto Le vie dell’Amicizia 2023 che il Ravenna Festival propone annualmente in luoghi legati da tradizioni culturali e destini storici apparentemente inconciliabili.
Quest’anno l’ideale “ponte di fratellanza attraverso l’arte e la cultura” innesta i suoi piloni in tre città: Ravenna, storica sede del Festival, Jerash, l’antica Gerasa, in Giordania, e Pompei, laddove, nel Teatro Grande del II sec. a.C., si conclude il trittico di concerti eseguiti il 7, 9 e 11 luglio con medesimo programma, a latitudini diverse e in terre segnate da avvenimenti e sconvolgimenti simili.
Apertura del programma dedicata allo smarrimento di Orfeo che si addentra nelle caverne rocciose al di là del fiume Cocito: viene eseguito l’atto II da Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck nella versione viennese del 1762: stasera la parte di Orfeo viene affidata al controtenore Filippo Mineccia; nel 1762, al Burgtheater, al contraltista lodigiano Gaetano Guadagni.
Riccardo Muti, alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e del Coro Cremona Antiqua, diretto da Antonio Greco, conduce l’Orfeo di Filippo Mineccia in una cupa atmosfera, aliena da disperazione.
La concezione e la concertazione di Muti ricalcano la magistrale incisione del 1982 (Baltsa, Marshall, Gruberova, Philharmonia Orchestra, Ambrosian Opera Chorus, EMI, 1982): estremo nitore della linee melodiche, fraseggio impostato su un inestinguibile senso del cantabile, pervaso da un’articolazione melodica improntata a una melanconia soave, anticipatrice di quella mozartiana.
Le lusinghe della filologia esecutiva non hanno fatto breccia nella visione interpretativa che Muti propone di Gluck, compositore amatissimo e molto eseguito sin dagli anni fiorentini dal maestro napoletano. L’interpretazione – improntata al culto e alla ricerca della espressività della parola, della bellezza della frase melodica, vocale e strumentale, della armonica compattezza dell’impianto della partitura – ancor oggi risulta valida e di estrema suggestione.
L’Orfeo del controtenore Filippo Mineccia, dopo qualche difficoltà iniziale, mette a fuoco la propria emissione e, magnificamente sostenuto dall’accompagnamento orchestrale che gli appresta Muti - laddove rende plastica la differenza tra far suonare l’orchestra e farla cantare - in “Che puro ciel, che chiaro sol...” registra il momento meglio articolato della propria interpretazione: il suo è un Orfeo in preda a controllato smarrimento. Preciso e ben articolato nei registri, dai molteplici colori vocali è il Coro Cremona Antiqua, il cui apporto contribuisce a dare la giusta tinta al cupo quadro del secondo atto di Orfeo ed Euridice.
Prima di volare verso un’incursione nella civiltà musicale mediorientale si invoca la luna, quella dispensatrice di pace di Casta diva da Norma di Vincenzo Bellini. Ma la “silenziosa luna” non fa capolinea sulla cavea del Teatro Grande di Pompei, contrariamente a quanto accadde nel 2020, sopra il Tempio di Poseidone a Paestum in occasione di un’altra edizione del concerto delle Vie dell’amicizia (qui la recensione): la lunga introduzione del primo flauto (molto ben eseguita) e la voce brunita del soprano Monica Conesa - ma con inflessioni canore un po’ troppo imitative della insuperata interprete novecentesca di Norma - non sortiscono il miracolo: la luna non appare, e l’esecuzione non si attesta oltre un livello di sufficiente professionalità.
Dalle Gallie sottomesse ai romani il programma del concerto ci conduce verso la regione di Jazeera, tra il Tigri e l’Eufrate per il canto I dimenticati sulle rive dell’Eufrate, su testo di un’antica poesia siriana musicata dalla compositrice di Damasco, classe 1975, Dima Orsho: il canto orientale, per articolazione melodica e sound, di Mirna Kassis e Razek-François Bitar, con l’oud (liuto arabo a manico corto) di Saleh Katbeh e le percussioni Elias Aboud danno vita a uno struggente nenia di nostalgia, di ricordo di migrazione e attesa speranzosa, ben sostenuta dall’accompagnamento calibrato e discreto dell’Orchestra Cherubini.
Il tema dell’esilio, dello sradicamento, riappare in Raccontami del mio paese, brillante canzone composta dai fratelli libanesi Assi Rahabani e Mansour Rahabani, magnificamente interpreta dalla voce di Zain Awad, coadiuvati, come nel brano precedente e nel successivo, da Saleh Katbeh (oud) e Elias Aboud (percussioni) e, a far da sfondo musicale, dall’Orchestra Cherubini.
A seguire, Apparve fluttuante, un “Muwashah” - forma vocale complessa di ascendenza siriana-egiziana e, successivamente, andalusa - interpretata dalla bravissima Ady Naber (canto), e i sempre validissimi Saleh Katbeh, Elias Aboud e l’Orchestra Cherubini: “la predizione sarà il mio Destino”, si canta in questo pezzo Das Schicksalslied (Canto del destino, del 1871) di Johannes Brahms a chiudere il concerto.
La lirica di Friedrich Hölderlin, che la musica di Brahms ha reso una potente composizione sinfonico-corale, ci narra dell’uomo in balia del destino: “Es schwinden, es fallen/Die leidenden Menschen/Blindlings von einer/Stunde zur andern,/Wie Wasser von Klippe/Zu Klippe geworfen,/Jahrlang ins Ungewisse hinab” (traduzione di Luigi Bellingardi: “Svaniscono, cadono/i poveri uomini,/alla cieca, da un’ora/all'altra/come l'acqua da un masso/all’altro precipitato/in fondo all'ignoto”).
Se qui Muti e la sua Orchestra sono particolarmente efficaci nel delineare e dominare i marosi orchestrali, le improvvise accensioni foniche, a tornire il fraseggio, il Coro Cremona Antiqua appare quasi impaurito nell’affrontare la complessa partitura: è attento a garantire la quadratura agogica del brano ma a scapito di un’interpretazione coerente con la visione orchestrale proposta da Muti. Poco coinvolgimento e amalgama da parte del Coro per una composizione, la cui magia e il cui intimo smarrimento sono riposti nella compenetrazione e nel idem sentire tra voci e strumenti.
Il concerto ci conclude con lunghi applausi: il caldo torrido della serata nel Parco archeologico di Pompei non scalfisce l’entusiasmo del pubblico che gremisce le gradinate del teatro; tuttavia Riccardo Muti non concede bis.
Si ammira la cavea del Teatro Grande prima di dirigersi verso il vomitorium e il successivo quadriportico dei teatri: il Destino, nel farci godere di questo condensato di bellezza, è stato particolarmente benevolo con noi.