Radiografia della danza
di Luigi Raso
Ingo Metzmacher debutta al San Carlo con una lettura novecentesca e oggettiva, persino prosciugata sul piano espressivo, di Stravinskij e Beethoven.
NAPOLI, 24 febbraio 2024 - “Pulcinella fu la mia scoperta del passato, l’epifania grazie a cui tutta la mia opera posteriore è diventata possibile. Fu uno sguardo all’indietro, il primo di molti amori in quella direzione, e anche uno sguardo allo specchio (…).”: è Igor Stravinskij stesso, nel libro-conversazione con Robert Craft Ricordi e commenti (Adelphi, 2023) a suggellare l’importanza di Pulcinella all’interno della propria eclettica produzione musicale.
Scoperta del passato: reinventando la musica di Giovanni Battista Pergolesi (compresa quella che all’epoca della composizione, fra il 1919 e il 1920, era attribuita al compositore jesino), Igor Stravinskij appronta un balletto che è immerso nell’oggettività del ‘900 musicale. La contemporaneità di Stravinskij, la sua geniale e “picassiana” capacità di ricreare scomponendo e ricomponendo, affonda le sue radici in stilemi e danze settecentesche. Ma che Pulcinella sia partitura prettamente novecentesca è ben chiaro a Ingo Metzmacher, che - al suo debutto al San Carlo – la analizza osservandola come si studia una radiografia: ne fa vedere le strutture portanti e non solo.
Infatti, nel fitto e continuo dialogo tra le prime parti dell’orchestra si possono individuare i pilastri della partitura di Pulcinella; nel ripieno, nella formazione orchestrale trattata dal geniale musicista russo quale formazione cameristica allargata, le strutture trainate dell’edificio.
Questa dicotomia, tra concertino e tutti, nel lavoro di Metzmacher è immediatamente visibile, senza dubbio: ciò che manca, però, sono i colori, gli accenti, il fraseggio che le melodie di Pergolesi, o presunte tali, richiedono affinché Pulcinella, pur nella oggettività originaria dell’autore e in quella perseguita dal direttore, diventi un edificio pulsante e animato.
Ingo Metzmacher assicura a Pulcinella un’asetticità esecutiva tipicamente novecentesca che, però, sin dalla Ouverture vira verso un’aridità di fondo che percorre l’intera esecuzione.
Proprio l’assenza di un’evidenziazione degli accenti e di un fraseggio plastico fanno scendere sull’intera esecuzione del balletto (stasera proposto in versione da concerto: non sarebbe stato preferibile ricorrere, dunque, alla successiva - del 1922 - Suite da concerto da Pulcinella?) una patina di meccanicità, priva di ogni sensualità pur insista nell’originario ordito melodico di Pergolesi dal quale la raffinatissima operazione di reinvenzione di Stravinskij muove i suoi passi.
C’è da aggiungere che Ingo Metzmacher non riesce a garantire alle prime parti degli archi - i puntuali, esperti e raffinati Gabriele Pieranunzi, Salvatore Lombardo e Francesco Venga, rispettivamente dei primi violini, dei secondi e delle viole - un adeguato risalto fonico, risultando spesso il loro preciso lavoro di arco e cesello quasi ingurgitato dai gorghi di un’orchestra che procede con indifferenza e meccanicità.
Le prime parti degli ottoni, indietro, invece non appaiono puntuali come quelle dei citati archi; vanno meglio quelle dei legni, ma - spiace constatarlo - il dialogo delle prime parti dei fiati risulta alquanto opaco e affetto da qualche imprecisione di troppo. E se in Pulcinella le prime parti non si mostrano precise e luminose come l’ingranaggio di un orologio svizzero, l’edificio della partitura rischia qualche cedimento.
A soffiare un alito di vitalità su questa esecuzione ci pensano le buone voci di Caterina Piva, mezzosoprano dal bel timbro e dalla buona emissione, abile nel dare colore e sensualità alle melodie di Pergolesi-Stravinskij, Francesco Castoro, tenore dal timbro gradevole, Dario Russo, basso dalla voce brunita ma che sconta qualche asprezza di troppo nell’emissione.
Immaginiamo che il collegamento tra Pulcinella e la Sinfonia n. 7 in la maggiore, Op. 92 - composta tra il 1811 e il 1812 -di Ludwig van Beethoven sia da individuare nel comun denominatore dell’elemento danzante: un balletto il primo brano eseguito, “apoteosi della danza”, secondo la felicissima definizione di Richard Wagner, la Settima sinfonia, seconda composizione nel concerto di stasera.
Anche per il secondo brano in programma la direzione di Ingo Metzmacher strizza l’occhio al ‘900 musicale, suo terreno d’elezione: partitura sezionata, ricerca di un suono secco, risalto all’architettura musicale. L’incipit, il Poco sostenuto del primo movimento, è staccato con tempo alquanto indugiante; nel corso dell’esecuzione la scelta di Metzmacher si orienterà verso dinamiche più sostenute. L’Orchestra del San Carlo lo segue perfettamente, il suono è ben amalgamato e risponde alle indicazioni impartite da Metzmacher, le sonorità appaiono sferzanti e decise.
Ciò che però latita, anche nella Settima, è la fantasia esecutiva: si ha la sensazione che la meravigliosa composizione di Beethoven cammini da sé, brilli di luce propria, grazie a un’orchestra nel complesso efficiente e puntuale. Ma delle articolazioni musicali e del fraseggiare, che dovrebbe dare distinti sapori, colori e sostanze ai quattro movimenti che compongono la Settima, a chi ascolta giunge soltanto una lontana eco, ad eccezione del monito costante e persistente dei timpani.
E proprio nell’ultimo movimento, il vorticoso Allegro con brio,Ingo Metzmancher si concede una eccessiva, quanto tardiva estasi dionisiaca: incendia l’orchestra, ma accentua eccessivamente l’elemento percussivo dei timpani, che finisce per risultare sovrabbondante nel complesso gioco dei pesi e contrappesi fonici all’interno dell’orchestra.
Il calor bianco, più epidermico che di genuina intensità, dell’Allegro con brio innesca da parte della sala del San Carlo gremita applausi calorosi prolungati all’indirizzo di orchestra, direttore e prime parti.