Un angelo impopolare
di Lorenzo Cannistrà
Il pianista polacco Piotr Anderszewski, chiamato all’ultimo minuto per una sostituzione, regala un suggestivo recital alla Società del Quartetto. Un programma circolare che, partendo da Bach, tocca punti nevralgici del repertorio per ritornare ancora al genio di Eisenach.
MILANO 20 febbraio 2024 - Uno dei complimenti più apprezzati da un pianista in carriera – almeno fino a qualche decennio fa – consisteva nel dire che il suo repertorio si estendeva “da Bach a Stravinsky”, compositori assunti come una sorta di alfa e omega della musica d’arte. Al giorno d’oggi gli orizzonti sono assai più ampi (Stravinsky è morto nel 1971) e un interprete che voglia dimostrare il suo “ecumenismo” interpretativo dovrà affrontare ben altri cimenti, quando non voglia in alternativa scegliere con oculatezza tra l’alfa e l’omega testè citati.
Piotr Anderszewski, pianista polacco serio e scrupoloso, chiamato dalla Società del Quartetto a sostituire l’indisposto Yefim Bronfman lo scorso 20 febbraio, si è “accontentato” di delineare un affascinante arco che parte da Bach, attraversa Chopin, arriva a Szymanowski e a Bartók (contemporanei di Stravinsky) e si chiude sempre con Bach. Non posso dire esattamente quanto sia esteso il repertorio di Anderszewski: il suo sito web (nel quale egli appare addirittura in un breve video che lo ritrae in cucina, impegnato con un rametto di rosmarino) tace elegantemente sull’argomento, lasciando che per lui parli la sua selezionata discografia.
Difficile invero trovare un pianista altrettanto attento proprio nelle scelte di repertorio. Tanto, tantissimo Bach, molto Beethoven, Chopin in misura doverosa, qualche lavoro importante di Schumann, niente Liszt, buone dosi di Janáček, Szymanowki, Bartók ed altro ancora.
Oltre a questo tratto squisitamente artistico, è l’impopolarità di alcune sue prese di posizione a rendermi Anderszewski assai simpatico. Per intenderci, stiamo parlando di un pianista che da giovane concorrente della Leeds International Piano Competition, già finalista se non addirittura vincitore in pectore del concorso, preferì il ritiro al trionfo ritenendo che la propria performance non fosse abbastanza buona. Altrettanto impopolare è stata poi la sua protesta all’ultimo concorso “Chopin” di Varsavia per l’esclusione dal sestetto dei finalisti di Eva Gevorgyan (che lasciò basito anche me: ero convinto che meritasse almeno il podio). Protesta impopolare, si diceva, perché diretta in sostanza a dire le cose come stanno, senza limitarsi a tifare magari per il giovane connazionale arrivato quarto e di cui a stento si ricorda oggi il nome.
Per questo recital al Quartetto il travaglio interiore sostenuto dal pianista nella scelta dei brani ha coinvolto anche l’ordine di presentazione. A sala già gremita viene infatti annuciato che la Partita BWV 825 di Bach verrà eseguita alla fine anziché nella prima parte accanto alla Partita BWV 830. A mio parere il programma avrebbe funzionato in qualsiasi modo (anche ad esempio aprendo la seconda parte con la BWV 825 e terminando con Bartók), perché è uno di quegli impaginati da cui si dipartono molti fili intrecciati tra loro, ciascuno invisibilmente legato all’altro.
Colgono nel segno le note di sala di Paola Camponovo, la quale individua il fil rouge del programma nell’ispirazione tratta dalla musica popolare, così come nella forma bagatellare di tutti i pezzi proposti (benchè le Partite, complessivamente considerate, disegnino affreschi di grande potenza). Senza dubbio sagace è stata la scelta di accostare la Partita BWV 830, quella di più difficile ascolto, alla BWV 825, forse la più popolare ed “orecchiabile”. Raffinata la selezione di mazurche di Chopin, quelle dell’op. 59, mentre suggestiva è la successiva dissoluzione di quel linguaggio nella riproposizione di Szymanowski, nelle cui Mazurche op. 50 resta solo il pallido ricordo del ritmo di danza.
Aggiungiamo – ma si tratta più di una nota di colore – che il pianista è di origini polacche ma anche ungheresi. La ricerca delle radici musicali si mescola inevitabilmente anche con qualche nota biografica.
Tuttavia in questo programma non vedo soltanto scelte all’insegna del recupero della tradizione popolare. Ciascuna di queste opere segna anche la tappa importante di uno spiccato percorso sperimentalistico in musica. Il marcato contrappunto nella Giga della Partita BWV 830 è quanto di più lontano possa far pensare ad un movimento di danza. I trapassi armonici che troviamo nell’op. 59 di Chopin sono talmente raffinati e trascoloranti da far quasi impallidire il cromatismo della Barcarola op. 60. E la ricerca etnomusicale, cui pure Bartók dedicò importanti anni della sua vita, ha nelle Bagatelle op. 6 meno pregnanza rispetto all’innovazione del linguaggio musicale che si può cogliere in questi brevi pezzi, vera e propria “officina tecnica del compositore”, per usare le parole di Massimo Mila. Ancora oggi pare incredibile che questa musica sia stata composta già nel 1908.
La serietà e il pensiero profondo che assistono le scelte di repertorio di Anderszewski si ritrovano anche nell’esecutore-interprete. Il suo Bach è all’apparenza anòdino, sembra mancare di un tratto ben definito. Più facile dire cosa è: non è virtuosistico, non è estroverso, non è declamato. In alcuni momenti sembra sotto traccia, intento a nascondersi. Eppure alla fine di ogni brano che compone la singola Partita si rimane positivamente colpiti dall’eleganza, dalla discrezione, dal sottile fascino dell’equilibrio. Sotto le dita di Anderszewski la Partita BWV 825 non stilla volgarità neanche nei suoi momenti più gioviali.
Chopin e Szymanowski sembrano qui legati da un comune destino che li vede pesantemente attaccati alla terra. L’interpretazione non è priva di eleganza, ma è più legata, affaticata, con un incedere che riflette le sublimi arditezze (e irresolutezze) armoniche disseminate qua e là nella partitura.
L’esecuzione di Bartók è stata inaspettatamente estroversa e illuminata in ogni dettaglio. Il pianista ha mostrato al suo pubblico di aver capito la carica innovativa di quella musica nelle ingegnose trovate che si susseguono in ciascuna bagatella. Entusiasta di quella piccola rivoluzione, Anderszewski condivide con il suo pubblico la bellezza di quella scoperta. Alla fine ad applaudire convintamente questo angelo impopolare è un pubblico che non è solo trascinato dalla vitalità di Ma mie qui danse, l’ultimo scoppiettante brano del ciclo, ma che ha seguito con densa attenzione tutte quelle scoperte musicali come fossero fresche di stampa.
Anderszewski si congeda dalla sala Verdi del Conservatorio ancora con Bach (il meraviglioso Preludio in fa minore BWV 881, purtroppo senza la magnifica Fuga) e con la prima delle Bagatelle op. 126 di Beethoven. Sublime conclusione di un recital senza effetti facili, eppure estremamente appagante.