L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Angeli e demoni

di Alberto Ponti

La stagione 2023-24 dell’Orchestra Sinfonica Nazionale si chiude con l’indiscutibile e meritata affermazione del direttore inglese e del violinista tedesco in una memorabile serata con pagine di Respighi e Mahler

TORINO, 31 maggio 2024 - Anche volendo, non si potrebbe immagine un finale di stagione più trionfale di quello che ha salutato l’ultimo concerto dell’Orchestra Sinfonica Nazionale, guidata da Daniel Harding affiancato dal violino di Frank Peter Zimmermann. Due interpreti di primissimo piano, si dirà. Eppure sulla carta l’esito non era così scontato: se è vero che la Sinfonia n. 1 di Mahler, eseguita nella seconda parte, è un’opera il cui scatenamento di forze del finale pare fatto apposta per innescare l’ovazione, non altrettanto si può affermare dell’introspettivo Concerto gregoriano (1921) di Ottorino Respighi proposto in apertura che, nonostante sia spesso citato tra i vertici della produzione del maestro bolognese, alla prova dei fatti è un vero e proprio oggetto misterioso che capita assai di rado di ascoltare dal vivo. D’altronde la grandezza di una coppia di esecutori è un dato oggettivo e passa anche da qui: con il connubio Zimmermann/Harding il pezzo si rivela per il capolavoro che è, quando invece basterebbero protagonisti di livello appena inferiore per assicurare lo sbadiglio. Le caratteristiche ci sono tutte: la parte del violino è di difficoltà mostruosa (Respighi aveva una formazione violinistica) ma senza avere sotto gli occhi la partitura è difficile rendersene conto; ad eccezione di pochi luoghi del finale mancano passi brillanti nonostante un’orchestrazione sempre magistrale; le melodie sono raffinatissime e ben tornite ma, a meno di non avere una memoria musicale fenomenale e toscaniniana, all’uscita della sala si sono già dimenticate. Brano ostico da mettere fuoco quindi, dal punto di vista esecutivo e da quello stilistico. Zimmermann imbraccia lo Stradivari ‘Lady Inchiquin’ e il miracolo si compie. Ne esce fuori, nell’Andante tranquillo di esordio, che si espande sopra un soffice tappeto di archi acuti, un insieme prodigioso per intonazione, espressione, arcata del solista, anche quando il discorso si fa via via più fitto, con gli interventi degli ottoni dal sapore ieratico e crepuscolare a un tempo, ubbidienti al gesto essenziale e preciso di Harding, che si districa con eleganza naturale tra i meandri di una scrittura ritmicamente complessa, spesso sincopata, tra alchimie timbriche ricercate, con i timpani soli a sostenere più di una volta le evoluzioni della parte principale. Nell’Andante espressivo e sostenuto e nel Finale, in tempo di Allegro energico ad incorniciare estese oasi liriche, il tratto personale di Zimmermann si rivela in un dialogo con l’orchestra dove il controllo assoluto della tecnica e la stupefacente pulizia nel suono si sposano a una visione personale in grado di rinvigorire fraseggio e tratti dinamici, quasi ricreando ex novo un concerto che mai, in incisione, ci era parso così affascinante e illuminato da sprazzi di autentica bellezza. E ravvivati da un incanto magnificente sono i due encore concessi tra l’entusiasmo della sala: Erlkönig di Schubert nella diabolica trascrizione per violino solo di Heinrich Wilhelm Ernst e la Sarabande dalla prima Partita di Bach.

Dagli angeli del canto gregoriano, fonte di ispirazione respighiana, alle terrene suggestioni della Sinfonia Titano di Gustav Mahler trascorrono appena i venti minuti dell’intervallo. La lettura che ne dà Harding è serrata, incalzante, senza un solo istante di indugio e compiacimento sull’effetto spettacolare. Sotto la sua bacchetta impeccabile, implacabile e sapiente, l’orchestra, con i contrabbassi a sinistra del podio anziché alla destra, acquisisce quel tratto particolare che solo i grandi le sanno imprimere e fornisce un eccellente performance in ogni reparto. La superba elaborazione del particolare, a dimostrazione del feeling che il maestro è riuscito a ottenere nei pochi canonici giorni di prove, si compone in un variegato mosaico dove il disegno generale emerge potenziato dalla perfetta messa a punto delle sezioni strumentali. A colpire è la coesione tra le sezioni del lavoro impressa dal direttore inglese, la varietà delle atmosfere sviluppata a partire dalla cellula di quarta discendente subito esposta alla terza battuta del primo movimento, la simultaneità di corrispondenze tra sviluppo orizzontale delle idee e sostanza armonica verticale, l’assenza di benché minime sbavature negli accordi in fortissimo disseminati lungo i quattro tempi del vasto affresco. Ecco allora svolgersi davanti a noi il sorgere del suono primigenio di una natura stilizzata ma ben riconoscibile, il robusto accenno di danza del secondo movimento, il funerale del cacciatore con la celebre marcia in bilico tra ingenuità naïf e sberleffo ironico, il sulfureo Stürmisch bewegt del vasto finale che in origine Mahler aveva sottotitolato, tra i rimandi letterari al romanzo di Jean Paul (Titan) ‘Dall’inferno al paradiso’. Daniel Harding non si lascia intimorire nemmeno dai demoni evocati da quest’ultimo quadro, lanciando l’Orchestra Sinfonica Nazionale in una sfrenata orgia dove nulla è lasciato al caso, fino all’apoteosi delle ultime battute con i sette corni in piedi a scandire i loro arpeggi ascendenti sul fastoso pedale di tonica che chiude l’opera.

Applausi frenetici ed esultanti da parte di un pubblico numeroso e attento. Chiusa la stagione nel miglior modo possibile, gli appuntamenti con l’OSN Rai avranno un’appendice nei tre concerti ‘Pops’ in programma nel mese di giugno.


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