L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il sangue versato

di Irina Sorokina

Rinnovata nel cast e nella concertazione con ottimi risultati, la produzione di Khovanščina del teatro Stanislavskij Nemirovič-Dančenko di Mosca conferma come il capolavoro di Musorgskij non sia solo prerogativa delle maggiori istituzioni operistiche.

Mosca 21 febbraio 2024 - Ci sono dei capolavori del teatro lirico che per una ragione o l'altra non si vedono spesso nei cartelloni operistici. A volte si tratta dei titoli importantissimi scritti da compositori nati proprio nello stesso paese, ma fanno fatica di entrare nel repertorio in modo stabile. Per farne un esempio, di tre opere di Modest Musorsgkij (tra cui una incompiuta, La fiera di Soročincy), Boris Godunov nelle versioni diverse spesso è presente nei cartelloni, mentre Khovanščina, opera eccezionale per le sue qualità drammaturgiche e musicali, si vede poco, nonostante produca uno scossone emotivo che supera alla grande Boris.

Secondo il nostro parere, se uno di noi, sia uno storico della musica sia un melomane, almeno una volta ha visto e ascoltato Khovanščina, ne ricava un'impressione indelebile e nella profondità dell'anima conserva il desiderio di incontrarla ancora. E porta con sè per sempre un paio di ricordi musicali di questa partitura incompiuta: nel caso dell'autrice si tratta del doloroso coro di strelcy ”Batja, batja vyjdi k nam “(“Padre, padre, vieni da noi”) e della profezia di Marfa “Sily potajnye” (“Forze misteriose”) nella scena col principe Golitsyn.

La messa in scena di Khovanščina si associa normalmente a teatri grandi, di maggiore importanza, come il Bol’šoj di Mosca, il Mariinskij di San Pietroburgo o la Scala di Milano, ma esattamente nove anni fa fece la sua apparizione a poche decine di metri di cammino dal teatro lirico più importante della Federazione Russa, il Bol’šoj, appunto. Il Teatro Musicale intitolato ai suoi fondatori e ai grandi riformatori Konstantin Sergeevič Stanislavskij e Vladimir Ivanovič Nemirovič-Dančenko ha avuto il coraggio di introdurre l’opera di Musorgskij nel proprio repertorio e, com’era da aspettarsi, la messa in scena è stata realizzata da Aleksandr Titel’, alla guida della seconda compagnia dell’opera presente a Mosca da più di trent’anni. Khovanščina è un’opera incompiuta, il povero Musorskij ci lavorò negli ultimi otto anni di vita, ma non lasciò che qualche bozza, la riduzione per canto e pianoforte e alcune scene orchestrate. Nel destino di Khovanščina giocò un ruolo decisivo un compagno di Musorgskij del Gruppo dei cinque, Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, senza il quale l’opera non sarebbe mai arrivata ad essere rappresentata. Può con certezza essere considerato un santo: portava a compimento e orchestrava i lavori dei propri compagni  del Gruppo dei cinque passati a miglior vita. Ricordiamo il ruolo importante della storia di Khovanščina di Rimskij-Korsakov, ma sottolineiamo che il secondo teatro dell’opera moscovita ha preferito la partitura incompiuta di Musorgskij orchestrata da Dmitrij Šostakovič nel 1959, cosa impossibile da ignorare perché tradizionalmente l’uso dei timbri dell’autore di Lady Macbeth del distretto di Mcensk si considera piuttosto duro. Questa Khovaščina porta anche il nome di un terzo compositore, il nostro contemporaneo Vladimir Kobekin che per il volere della direzione artistica del teatro ha creato un vocalizzo drammatico e commovente per voce femminile in seguito della scena del suicidio nelle fiamme di Marfa che porta con sè Andrej Khovanskij.

Khovanščina orchestrata da Šostakovič e concertata dal maestro di chiara fama Aleksandr Lazarev, per anni il direttore artistico del Bol'šoj, fu un successo e lo è tuttora nelle mani di direttori diversi; un successo che ha scacciato per sempre il luogo comune che i capolavori grandiosi di Musorgskij potessero funzionare esclusivamente nei teatri grandi. Lo ha scacciato prima di tutto grazie alla scenografia di Vladimir Aref’ev, che non si è lasciata influenzare dallo storico allestimento di Fedor Fedorovskij di molti decenni fa al Bol'šoj, che creava nello spettatore l’illusione di trovarsi davvero al Cremlino di Mosca, davvero all’interno di case tanto diverse tra loro come quella dell'occidentalizzato principe Golitsyn o quella tipica del tardo Seicento russo del principe Ivan Khovanskij. Nella sua mentalità moderna, Aref’ev ha disegnato un’unica scenografia, una specie di izba di legno, austera e anche cupa, ma dal soffitto alto, altissimo; più di una vera izba, è sembrato uno dei simboli della Russia antica (ma delle izbe così non si contano anche adesso sugli spazi immensi del paese meraviglioso e pieno di problemi irrisolti e tragici). La grandezza di quest’izba crea uno strano effetto, sembra realmente che esca dai confini del palcoscenico e costringa gli spettatori a rimanere sotto il suo soffitto ad assistere in prima persona alla tragedia di Khovanskij e del corpo militare antico a lui fedele. Nell’izba tanto spaziosa a tanto austera, ci sono scale e porte, ma soprattutto tavoli e panche, quasi quasi non serve qualcosa di più, sulle panche si siedono gli strelcy in rivolta, sui tavoli appoggiano le loro armi. L’ingresso dell’antico corpo militare fedele al principe Khovanskij avviene senza musica, ma quando inizia sul fondo passa un carro pieno dei morti e dei loro miseri panni. In seguito tavoli dalla lavorazione essenziale dimostrano la loro natura universale, dall’inizio servono agli strelcy per mangiare e bere qualcosa, alla fine su uno di essi verrà gettato il cadavere di Khovanskij-padre. Ma verranno usati per tante altre cose, questi tavoli.

Se la scenografia di Aref’ev è intenzionalmente essenziale, le luci di Damir Ismagilov sono tanto ricche e fantasiose, con l’uso dei colori rosso e oro e giocano un ruolo principale nella creazione di atmosfere quasi sempre sospese e tragiche.

Il regista Aleksandr Titel’ dimostra uguale bravura sia nella gestione delle masse corali sia nel disegnare i rapporti complicati tra i personaggi. La sua mano ferma sembra invisibile, ma ogni artista del coro conosce perfettamente il proprio posto e comunica con i colleghi; la sua mente sembra lasciare ai protagonisti la piena libertà dell’interpretazione, ma la profondità della comunicazione tra loro tradisce la presenza dell’espertissimo maestro del teatro chiamato Titel’. Questa Khovanščina grigia, grandiosa e dolente coinvolge fino a provocare dei brividi, esattamente come li provoca la partitura di Musorgskij. Estorce le lacrime quando gli strelcy implorano Ivan Khovanskij di uscire per parlare con loro e manda in pubblico a casa in  stato di catarsi dopo che Marfa porta con sé l’amante infedele e l’uomo debole Andrej Khovanskij al rogo. Quindi, lo scopo è raggiunto, lo spettacolo non solo funziona, ma potrebbe anche entrare nella storia del teatro dell’opera dell’epoca post sovietica.

Non da meno è il cast; nella compagnia del Teatro Musicale K. S. Stanislavskij e V. I. Nemirovič-Dančenko sono presenti artisti di caratura altissima, necessaria per un’opera di tale grandezza e su tutti domina Natal’ja Zimina, la vera primadonna della compagnia dell’opera. Non ha problemi a calarsi nei panni di Marfa, anzi: sa indentificarsi totalmente con un personaggio così complesso, così ricco di sfumature psicologiche. La voce della Zimina è di mezzosoprano importante, ampio, ben timbrato; ha una particolarità, è chiara nel registro acuto e scura in quello basso. Sarà un difetto o una caratteristica che la cantante possa girare al suo favore? Al nostro parere, la seconda opzione: la limpidezza rivela una donna innamorata fragile e dolente;il colore cupo una donna dedicata alla propria religione, ferma nel suo credo e implacabile.

Al suo fianco Aleksej Tikhomirov è un Dosifej in un certo senso inedito, non tanto anziano e per nulla ieratico. Appare molto umano e arriva dritto ai cuori di chi lo ascolta e lo segue – ci riferiamo anche al pubblico in sala. Appare più fraterno che paterno e penetra nei cuori per questo. La voce più chiara e più dolce se si vuole – e molti dei conoscitori dei vecchi dischi conservano il ricordo indelebile dei grandi bassi russi delle vecchie generazioni a cominciare da Fyodor Šaljapin e passando per Mark Rejzen - ma i tempi sono cambiati e al Teatro Musicale K. S. Stanislavskij e V. I. Nemirovič-Dančenko Aleksej Tikhomirov Dosifej risulta più raffinato e moderno, dolcemente paterno nei confronti di Marfa, tratti che si rispecchiano nella sua vocalità, nobile e morbida.

Anche Dmitrij Ul’janov nei panni del principe Ivan Khovanskij è di grande caratura e non si sa chi di due bassi provochi i brividi più forti nel pubblico. La sua forza sta nel disegnare un personaggio complesso, rozzo e passionale, ma non indifferente per il destino della patria; la ricchezza interiore viene rivelata soprattutto dalla voce importante e dal declamato ben studiato.

Attorno a tre interpreti principali, Valerij Mikickij nel ruolo di Vassilij Golitsyn riesce a disegnare il personaggio del principe “occidentalizzato” e amante della reggente Sof’ja in tutta la ricchezza interiore e la debolezza di carattere, così come Kirill Matveev nel ruolo dell’insignificante Andrej Khovanskij, figlio del vecchio principe Ivan, capace tuttavia di salire sul rogo insieme a Marfa. Sono due tenori niente male, buoni caratteristi dotati di voci gradevoli.

La bellissima voce del baritono Anton Zaraev figura benissimo nel ruolo di Fedor Šaklovityj a cui Musorgskij riservò la meravigliosa aria “Spit streleckoe gnezdo” (“Dorme il nido di strelcy”), da sempre uno dei cavalli di battaglia per i baritoni russi. Il cantante non perde un’ottima occasione di sfoggiare il proprio strumento importante, ben equilibrato e vellutato e coglie il senso profondo del brano, esprime la preoccupazione profonda per il destino della patria.

I soprani Irina Vaščenko e Marija Lupareva entrambe dotate di belle voci e presenza scenica importante, figurano benissimo nei ruoli di Susanna e di Emma. Completano il cast Daniil Malykh (Kuz’ka), Stanislav Černenko (Varsonofij), Kirill Zoločevskij (l'araldo del principe Golitsyn), Gabriel De Rel e Maksim Osokin (rispettivamente il primo e il secondo strelcy). Un effetto di una vera e tragica magia è creato dalla voce di Margarita Gušča, che intona un assolo composto da Vladimir Kobekin.

Khovanščina al Teatro Musicale K. S. Stanislavskij e V. I. Nemirovič- Dančenko nasceva sotto la direzione del rinomato Aleksandr Lazarev, per un lungo periodo direttore artistico del Bol'šoj e inevitabilmente portava l’impronta della sua personalità. Oggi viene affidata alla bacchetta di Timur Zangiev, di soli trent’anni (notiamo tra parentesi che una lunga serie di spettacoli allo storico teatro dell’opera e del balletto di Mosca da noi seguita, Khovanščina, Tosca, Don Giovanni senza un giorno di pausa, è stata diretta da lui, con comprensione profonda di stili musicali totalmente diversi tra loro e con un'ottima tecnica). Se qualcuno avesse avuto dubbi nell'affidare un'opera così significativa e profonda come Khovanščina a una bacchetta così giovane, ritenendo che sarebbe stato un azzardo, ha dovuto ricredersi. Timur Zangiev ha dimostrato la dovuta affinità col mondo tragico dei drammi musicali di Musorgskij, ha prestato attenzione a tutti i gruppi degli strumenti e ha fatto trattenere il fiato al pubblico mentre ascoltava il celebre brano sinfonico L’alba sul fiume Moscova, soprattutto grazie alla gestione raffinata delle dinamiche. Anche il suo rapporto con i cantanti è stato segnato da attenzioni profonde.

Vedere e ascoltare Khovanščina al Teatro Musicale K. S. Stanislavskij e V. I. Nemirovič-Dančenkoè stato una vera fortuna. Chi potrebbe dirci quando potremo averne un'altra occasione?


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