Giri di vite e colpi di martello
L’originalissimo dittico Il giro di vite/The turn of the screw, inaugura congiuntamente le stagioni del Teatro Carlo Felice e del Teatro Nazionale di Genova: a far da massimo comune denominatore v’è la messinscena di Davide Livermore, unico punto di congiuntura, al di là del testo scritto, tra lo spettacolo in prosa e quello in opera.
Genova, 13 ottobre 2024 – Del dittico Il giro di vite/The turn of the screw che ha congiuntamente inaugurato le stagioni del Teatro Nazionale e dell’Opera Carlo Felice di Genova si potrà mettere in discussione quasi tutto fuorché l’originalità: uno stesso soggetto declinato, nell’arco della stessa lunghissima serata horror – l’horror, a onor del vero, inizia dal parcheggio del Teatro Nazionale –, in teatro di parola e teatro in musica non è occasione ricorrente in tutte le stagioni. Occasione, appunto, per mettere a confronto due mondi teoricamente simili ma nella pratica sideralmente distanti, due facce della stessa medaglia che si distinguono nettamente per l’impiego di risorse, per le vie percorribili, per l’appeal sul pubblico – chi ci prova, nel suo piccolo, a non ritrovarsi solo in platea fra trent’anni, lo sa bene: vuoi per i costi, vuoi per il terrore che la musica può incutere, è molto più facile organizzare, così per dire, una serata al Teatro Stabile che al Teatro Regio –. Ciò che più intriga nell’operazione messa in atto dalle due fondazioni è, di fatto, osservare come uno stesso argomento possa sortire, in un caso o nell’altro, esiti completamente differenti.
La prosa, si sa, può sguazzare in una libertà che l’opera non concede. Nel Giro di vite di Carlo Sciaccaluga, ad esempio, il taglio imposto dalla regia – comunque bellissima – di Davide Livermore confina fin da subito la narrazione in una dimensione distorta e profondamente angosciante in cui gli attori, tutti bravissimi, si aggirano come demoni magnificamente acchittati – i costumi, splendidi, sono di Mariana Fracasso – negli spazi angusti finemente disegnati da Manuel Zuriaga. Il testo originale, l’omonima novella gotica di Henry James, gioca sull’ambiguità e sul non detto, scaricando sull’immaginazione dell’osservatore la responsabilità di completare il sinistro quadro, che rimane mai del tutto nitido. In questo contesto, però, la messinscena tende a uniformare il pathos e la tensione richiesti dal racconto: l’adattamento di Sciaccaluga è spesso ridondante, la nevrosi della tutrice si manifesta con evidenza già dai primi quadri, i bambini appaiono immediatamente come posseduti dagli spettri degli aguzzini e la vite, più che insidiarsi lentamente nella mente, vi ci si conficca come chiodo colpito da un martello. Lo spettacolo poi, per carità, è montato con la consueta maestria a cui Livermore ci ha abituati perché non v’è scena che non sia ragionata, o luci – curate da Nadia Garcia e Antonio Castro – proiettate a caso, né v’è coup de théâtre che non vada a segno, ma è anche facile sorprendere se si conosce il mestiere e si può far un po' quel che si vuole. Cosa che invece Britten nega categoricamente. Più equilibrata, più sinuosa e, in definitiva, più suggestiva, The turn of the screw introduce l’ascoltatore molto più cautamente agli inferi della psicologia umana. E il tutto funziona decisamente meglio, nonostante lo spoilerone della prosa e la quasi perfetta simmetria dell’allestimento. Abbandonate le movenze compulsive e demoniache, i personaggi creati da Livermore vivono ora un molle scivolare nell’abissi, in perfetta sintonia con le indicazioni suggerite dalla musica. Ne consegue così una lettura più coinvolgente, meglio calibrata, a tratti ipnotica, in cui sì, lo stile mette ancora in ombra l’idea, ma che, anche grazie all’enigmatico finale, genera un movimento che comunque inebria l’esperienza teatrale.
Esperienza teatrale a cui poi vanno sommate le suggestioni musicali – a differenza della colonna sonora assordante ascoltata nella pièce in prosa – che arrivano dalla raccolta buca dove Riccardo Minasi, alla guida dei complessi del Teatro Carlo Felice, imposta una lettura nitida e fortemente evocativa: intrisa di quel senso di inquietudine che sposa alla perfezione il soggetto del testo, la concertazione di Minasi s’impone per la teatralità del dettaglio strumentale che, come una voce fuori campo, accompagna e impreziosisce l’emozionalità della narrazione.
Il parterre vocale, infine, è ben assortito. Karen Gardeazabal, la tutrice, ha una voce rotonda e ben timbrata: fraseggiando con estrema perizia e dovizia di accenti anche nel canto di conversazione, Gardeazabal sa costruire un personaggio ricco di sfumature, vibrante nei momenti di maggiore drammaticità, che affascina e rapisce il pubblico. Al suo fianco fa molto bene anche Polly Leech nel ruolo di Mrs Grose che, con strumento ambrato e pieno, disegna una governante solida e consapevole. Corretti e persuasivi Valentino Buzza (Prologo e Quint) e Marianna Mappa (Miss Jessel). Un plauso, infine, a Oliver e Lucy Barlow, i piccoli Flora e Miles. Una sala gremita tributa lunghi applausi alla fine di ambo le recite.
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