La Lettera sul canto di Giovanni Camillo Maffei e il mondo classico
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Maffei e l'estetica della vocalità I
Maffei e l'estetica della vocalità III
Maffei e l'estetica della vocalità IV
Rinascimento e Grecia Antica pag. 1
Aristotele, «il vero secretario della natura» pag. 2
La voce pura: Platone e il canto pag. 3
La voce secondo Democrito, Anassimandro e la scuola stoica pag. 4
Bibliografia pag. 5
Rinascimento e Grecia Antica
Il Rinascimento guarda alla classicità e gli antichi filosofi greci, in particolare Aristotele, sono protagonisti dei Discorsi filosofici: nella Lettera sul canto, Maffei si rifà a due opere dello stagirita, cioè De anima e De generazione animalium. Platone, Democrito, Anassimandro e gli stoici in generale sono nominati all’inizio della prima lettera (Platone compare anche nel secondo libro delle Lettere, nella missiva indirizzata a Ostilio Orsini concernente il concetto di bellezza fisica e dell’anima), poiché anch’essi si sono interessati a quanto Maffei discute, ma l’autore propenderà sempre per le tesi di Aristotele, le uniche che riferisce.
È d’uopo ricordare che negli anni in cui visse e operò Maffei vi era un atteggiamento di autocensura: non possiamo escludere che abbia omesso riferimenti più concreti alle teorie atomiste e meccaniciste non solo perché fedele ad Aristotele, ma anche per via del ruolo vitale della religione cristiana nel Rinascimento. Dottrine così rigorose, che potevano mettere in discussione i dogmi della fede, non erano ben viste. Purtroppo, per cercare di spiegare determinate scelte di Maffei, possiamo limitarci a mere supposizioni; una granitica certezza è invece data dal suo immenso rispetto per Aristotele. Boezio, Eusebio e lo stesso Maffei ritengono lo stagirita il segretario della natura, fondatore indiscusso delle scienze biologiche sistematicamente organizzate; il suo proposito era, in effetti, difendere la parità dei diritti degli studi biologici rispetto ai tradizionali e consueti campi d’indagine dell’Accademia. Il reale, secondo Aristotele, coincide con un costante divenire, che fornisce materia di indagine: tutto ha uno scopo, ogni oggetto sensibile, ogni parte del corpo umano, ogni organo, e il fine del pensiero scientifico deve essere il raggiungimento della conoscenza delle loro strutture. Già a questo punto è possibile rendersi conto di quanto significativa sia l’impronta aristotelica in Maffei, che vede le scienze più come un’arte di impostare correttamente i problemi, non tanto un mezzo per ottenere risposte esaurienti e soddisfacenti.
Nelle dissertazioni di biologia, Aristotele indugia anche sul tema della voce, umana e non, e, a suo avviso, quella dell’uomo differisce dalle voci animali perché è materia della parola. In aggiunta, si può avere una voce solo in presenza di determinate condizioni fisiche, che enunceremo nel prossimo capitolo, proprio come asserisce Maffei; la voce è strettamente legata agli organi respiratori e fonatori, ma non solo: come vedremo nel prossimo paragrafo, l’immagine ha un ruolo fondamentale nel rendere voce un semplice effetto acustico.
Aristotele, «il vero secretario della natura»
Nella prima epistola, Maffei, per descrivere l’origine fisica della voce umana, si rifà all’esempio del vaso teatrale di cui parla Aristotele nel De anima: afferma che la voce risuona nella cavità uditiva, satura di un’aria assai più fine di quella esterna ad essa; è l’aria interna che forgia la voce, attraverso gli organi preposti alla fonazione, ma anche grazie alle immagini che quest’ultima comunica all’ascoltatore.
Proprio come Aristotele, Maffei crede che si possa parlare di voce solo quando il suono è significativo, accompagnato da un’immagine mentale. Entrambi portano l’esempio della tosse (Maffei dichiara che essa «fandosi senza imagginatione di significare, quantunque vi concorra la motiva del petto, non può né da medici, né da filosofi chiamarsi voce») per rendere lampante l’imprescindibilità del contenuto e il fatto che l’emissione vocale è un atto volontario. La voce maffeiana, sulla base della filosofia di Aristotele, è capace di proiettare l’interiorità all’esterno, è un dipinto sonoro con specifiche caratteristiche. Infatti, indipendentemente dalle affezioni che veicola, ogni voce ha un’identità ben precisa, che la rende unica. Maffei si ispira certamente all’autore del De anima quando constata le differenze timbriche: il filosofo greco esplicita le nette differenze tra il timbro (che ci consente di distinguere le voci, dato che dipende dalla materia e dalla costituzione della fonte sonora; riassume in sé la grandezza e lo squillo della voce, nonché la formante degli armonici, le sfaccettature che l’arricchiscono) acuto e quello grave; le voci sono ben definite, in quanto identificabili mediante specifici parametri, ma sono, al contempo, infinite, poichè essenze irripetibili.
Sicuramente, il concetto di suono simbolico conferisce alle voci anche carattere comunicativo, nonchè didattico: udendo immagini acustiche, siamo poi in grado di trasmetterle. Poi (e questo era già stato evidenziato proprio da Aristotele stesso), l’incontro tra fonazione e musica è un’esperienza sublime che rende ancor più efficace e potente la voce, il suo influsso, il suo messaggio, e questo perchè nelle melodie hanno sede le riproduzioni dei caratteri; però le icone vocali, oltre a essere popolate di affetti, possono facilitare l’insegnamento e il processo di apprendimento. In questo senso, ci ricolleghiamo a quanto detto nel precedente paragrafo: la voce dell’uomo è anche materia del linguaggio convenzionale, che gli permette di interagire verbalmente coi suoi simili, ma è in qualità di entità pura, affrancata dalla parola, che ha vita propria e nel tempo di un respiro imprime l’eternità.
Nei Problemata, Aristotele diceche «il linguaggio, che è un modo in cui si manifesta la voce, si altera apparentemente con molta facilità, e arriva alla perfezione con molta difficoltà»; nemmeno la voce è immutabile, cambia col passare degli anni: è influenzata dall’umore e dalle condizioni di salute proprio perchè fortemente ancorata al soggetto che la genera(e anche Maffei lo ammette), tuttavia la sua vettorialità la direziona all’esterno con elementi costanti che la rendono un prolungamento degli esseri viventi che ne sono dotati. In altre parole, la materia è plasmabile, ma non può mutare la sostanza di cui è composta. Secondo Aristotele, le immagini su cui si modellano le voci sono precedute da atti percettivi e strettamente connesse alla memoria: l’intonazione e la musicalità della voce sia parlata che cantante provoca emozioni nell’ascoltatore sulla base di impressioni, ricordi, incamerati attraverso i sensi, che esse aiutano a richiamare alla mente. Ciò è postulato anche da Maffei, la cui opera è doviziosamente dettagliata, nel tentativo di descrivere, attraverso uno scritto, quello che considera suono artistico.
Lo svantaggio dei fenomeni uditivi è, apparentemente, la brevità della loro esistenza. Eppure, queste righe testimoniano che un suono smette di esistere al suo cessare solo se non è significativo; l’immaginazione ci permette di registrare nella memoria una melodia e la creatività consente addirittura di rielaborarla. Difatti, si tratterà di esperienze personali, ovvero filtrate dall’individualità di ognuno. Per quanto il soggetto emerga negli scritti classici e in quelli di Maffei, non è tanto preponderante quanto sul finire del Seicento. È comunque indubbio che la volontà di apprendere autodidatticamente a cantare sia sintomo di una nuova coscienza; essendo solo con se stesso, è l’unico che può valutarsi, ma vuole anche che sia così. Il cantore di Maffei deve essere dotato di grande autocritica e autocontrollo. In un testo rinascimentale, si percepisce, seppur fievolmente, il bisogno di rivendicare l’individuo, l’uno. L’irriverente Maffei propone un metodo canoro tutto suo, minando parzialmente l’equilibrio precostituito, scompensando le idee dei tradizionali trattatisti, proponendo un canto sì cavalleresco, ma alla portata di tutti, consentendo, insomma, a chiunque di imparare un’arte elitaria. Certamente i grandi del passato, senza escludere nessuno fra coloro che Maffei richiama anche solo per dissentire parzialmente con le loro dottrine o nomina semplicemente, hanno contribuito alla formazione a alla presa di coscienza dell’individualità vocale maffeiana. Pertanto, dopo aver brevemente presentato la voce secondo Aristotele, ci concentreremo sul suo maestro, su Democrito, Anassimandro ed infine sulla scuola stoica.
La voce pura: Platone e il canto
Diversamente da Aristotele e Maffei, secondo Platone tutta la musica, quindi compresa anche quella pessima e diseducativa, produce piacere. Rispetto a quello platonico, poi, gli approcci aristotelico, e, conseguentemente, maffeiano, al mondo sonoro sono più empirici: Platone, al contrario di Maffei e Aristotele, non antepone le orecchie alla mente. Tuttavia, anche Platone è conscio che, oltre alla musica udita dall’orecchio corporeo, ve n’è un’altra, ineffabile, che tocca altre corde. Inoltre, è vero che Platone ammette la gradevolezza del brutto, ma concorda col suo discepolo sul fatto che il bello sia sinonimo di virtù, per questa ragione la bella musica raggiunge l’uomo nel profondo (ed è anche un ottimo mezzo didattico).
Interessante è il mito delle cicale nel Fedro di Platone: inizialmente, le cicale erano uomini, nati prima ancora delle arti. Quando nacquero le Muse, e con loro la poesia e la musica, questi uomini rimasero talmente inebriati da esse che passavano la loro vita a cantare e morivano perché dimenticavano persino di bere e mangiare. Per pietà, le dee li tramutarono in cicale, animali che potevano cantare fino alla fine dei loro giorni senza doversi nutrire, e li resero loro ministri: le cicale avevano il compito di riferire alle Muse chi era loro devoto e chi no. Il canto della cicala, voce pura, ispira gli uomini, e può addirittura agire su di essi inducendoli al sonno e incantandoli. Anche in questo mito, Platone sottolinea la centralità del “logos”, della ragione, ergo auspicando che la musica sia temperata dalla mente, ma la purezza del canto della cicala non è forse paragonabile alla voce pura di Maffei? Ed è questa similitudine che deve interessarci (considerando, poi, che né Aristotele né Maffei escludono la razionalità e la parola, semplicemente le vivono come momenti successivi al fenomeno dell’udito; essi lasciano che la musica penetri, senza riserve e timori, poiché se riesce a raggiungere l’anima significa che è virtuosa).
Un altro mito avvicina Platone al vocalizzare significativo di Maffei: nel Fedone, leggiamo del canto dei cigni, erroneamente interpretato dall’uomo. Quando erano vicini alla morte, questi splendidi uccelli levavano un canto alto e bello, scambiato dagli uomini per un lamento; Platone afferma che nessun uccello canta per dolore, e i cigni, che hanno il dono, concessogli da Apollo cui sono consacrati, della preveggenza, cantano felici quando vedono nel loro futuro l’appropinquarsi della fine e il ricongiungimento col divino. In questo passo, è celebrato non solo un canto significativo, ma anche l’immagine che lo provoca: la voce del cigno si trasfigura diventando più aulica quando l’uccello prevede il suo mortifero fato, quando, cioè, si para dinnanzi agli occhi della sua mente un’immagine di morte. Anche in tali aspetti Platone è, quindi, facilmente accostabile a Maffei.
La voce secondo Democrito, Anassimandro e la scuola stoica
L’Umanesimo, la cultura del Rinascimento, legata all’esigenza, sentita, come è ormai noto, anche da Maffei, di ricollegarsi al mondo greco-latino, individua la verità nella ricerca: come diceva Platone, che in questo discordava con Aristotele, la verità non è in mano a uno, ma è costruita dal sapere di più soggetti che condividono il bisogno di trovarla. In tal senso, nelle epistole di Maffei, un genere letterario fortemente personale, fondato sul dialogo fra più individui che condividono conoscenze e domande, aleggia un’inclinazione platonica. Credo che questo dato sia estremamente importante per tingere di nuove sfumature il pensiero di un filosofo dichiaratamente aristotelico. Interessandoci agli studi di Maffei relativi alla voce, non possiamo trascurare nessun dettaglio, tantomeno un elemento di questo tipo, indice del suo approccio metodologico squisitamente umanista e di matrice platonica.
Invece, l’atomismo di Democrito pare molto distante dalla visione di Maffei: avversato da Aristotele, Democrito spiega il reale solo da un punto di vista materialistico, fondato sull’incorruttibilità degli atomi, e questa prospettiva sfocia anche in una rigorosa fisica acustica, di cui la voce rimane vittima. Vale comunque la pena citarlo, perché, innanzi tutto, si è dedicato a studi scientifici acustici, è l’iniziatore della teoria matematica della scala musicale e ha contribuito al consolidamento, che abbiamo visto è resistito anche nel Rinascimento, della musica come scienza; infine, nelle sue opere di logica, scrisse che l’uomo non sa nulla in modo autentico, perché la verità giace nel profondo; conosciamo solo ciò che si trasforma secondo la disposizione del nostro corpo. Esulando dall’ottica atomistica, ritroviamo precetti basilari anche per Maffei: c’è una verità celata, resa parzialmente individuabile dai mutamenti che sono in relazione con le condizioni in cui versa il corpo che ne ha esperienza. Inoltre, dobbiamo rammentare che il materialismo di Democrito fornisce l’imprescindibile base per speculazioni ulteriori: del resto, l’invisibile non è il risultato del visibile? Senza un corpo non può esservi né suono né voce. Tengo a sottolineare una frase del già riportato esempio del vaso di rame:«[…] v’è necessaria la materia; perche né lo maestro, né l’instromento fariano effetto alcuno, s’il rame non vi fusse». Inoltre, sia Maffei che Aristotele legano, come vedremo minuziosamente nel paragrafo 3.2, la produzione della voce a precisi organi, in assenza dei quali la voce non può addirittura esistere; in aggiunta, si è già più volte ricordata la rilevanza che Maffei attribuisce al rapporto che intercorre fra la condizione del corpo sonoro e il risultato vocale ne che consegue. Passione e materia sono inscindibili, ed è la loro unione che genera la voce. Eppure, deve esserci un qualcosa che dia il via a codesta unione, che consenta alla voce di vivere e riflettere all’esterno l’interiorità: è insito nelle parole di Maffei un richiamo a un impulso iniziale. Tutto ciò ricorda la mescolanza originaria, principio dell’universo per Anassimandro: il filosofo di Mileto, che probabilmente fu maestro di Pitagora, propone un modello di circolarità, nel quale l’infinito è inizio e fine di tutto. Maffei pensa ad una voce che è specchio di chi la emette, esce dal corpo, ma recando parte di esso con sé, “un non so che”, un cosmo sonoro; ma questo non basta, deve esserci una sorta di scintilla, un principio della voce, e, per spiegarlo il nostro solofrano si accosta a un concetto caro ad Aristotele e anche agli stoici. Il “pneuma”, nei filosofi pre-socratici, indica il principio vitale; nello stoicismo, acquista l’accezione di “spirito”, mediante il quale il divino anima le cose, dona loro la vita. Per gli stoici, gli elementi costitutivi di un organismo rispondono, armonicamente, all’azione finalistica di un “fuoco artefice” o “soffio vitale” (concetto noto anche ai rinascimentali e all’aristotelico Maffei), il pneuma, appunto, che nella biologia aristotelica era usato per spiegare i meccanismi della respirazione e del movimento. L’armonioso organicismo stoico è piuttosto simile al finalismo degli organi fonatori e respiratori in Maffei, nei quali l’aria è un’elastica generatrice di suono: il soffio vitale, il respiro, animano il suono ed i “moti interni” che si fanno voce vibrano nell’aria. Ergo, l’aria dà vita alla voce, ed è altresì il luogo in cui la materia acustica esiste: un medium, un “macrocontenitore” che al contempo è fertile creatore; la ragione del prefisso “macro” è che sappiamo che anche la voce ha un certo non so che al suo interno. Pertanto, il modello illustrato è a più livelli, nonché assai complesso, ma evoca immagini finite: il contenitore è un qualcosa di chiuso, nel quale, nel nostro caso, vi è energia sonora, e quest’ultima si rinnova partendo, perciò, da se stessa. Le passioni muovono il suono, caratterizzato, come in effetti la scienza testimonia, da un moto ondulatorio simile a quello dell’acqua; un’allegoria maggiormente convincente e pertinente sarebbe uno specchio d’acqua circoscritto, come uno stagno. Gli stoici usarono questo preciso esempio per esplicare, su un piano visivo, i meccanismi acustici. Abbiamo uno stagno e l’acqua è ferma, ma basta che io getti un sassolino e la staticità si tramuta in movimento. Le increspature che si creano si inseguono fino ai bordi dello stagno; anziché infrangersi, si ripiegano su se stesse.
Il modello stoico dello stagno illustra come intende la fisica del suono anche Maffei. Tuttavia, è indubbio che nei discorsi di Giovanni Camillo Maffei ci siano i presupposti per una metafisica della voce che trascende la scienza. Secondo l’illustre solofrano la genesi dell’infinito risiede in ciò che non è tale; quel “non so che”, poliedricamente sfaccettato e riducibile all’affetto, non è calcolabile o precisamente delineabile. Non ha confini, tant’è che non può non valicare l’uomo, e per farlo ha eletto la voce a messaggera. Ecco che parlare, cantare, divengono l’equivalente di porte che spalancano i cuori verso l’esterno. Infine, si profilano anche i limiti delle scienze, che ad un certo punto si fermano. La voce, invece, va oltre le leggi, è un’abitante di un altro mondo.
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