L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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La nascita di Rigoletto

 di Pietro Gandetto

Dopo l’invito del Teatro la Fenice a comporre per la stagione del Carnevale e Quaresima 1850-51, in una lettera a Piave del 1850, emerge straripante l’entusiamo di Verdi per il nuovo soggetto, Rigoletto:

“Tentate! Il soggetto è grande, immenso e avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il soggetto è Le roi s’amuse ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet che se Varesi [Felice Varesi, baritono, primo interprete di Rigoletto, ndr] è scritturato, nulla di meglio per Lui e per noi. P.S. Appena ricevuta questa lettera mettiti a quattro gambe: corri per tutta la città e cerca una persona influente che possa ottenere il permesso di fare Le roi s’amuse. Non addormentarti, scuotiti: fa presto”.

Verdi si rende subito conto di avere tra le mani il soggetto che stava cercando da anni e cui aveva già pensato, ma accantonato per i pregressi impegni e ingaggi lavorativi, che il Maestro portava a termine con l’urgenza di uscire dagli anni di galera, cercando di “non innovare troppo”, per ottenere il facile applauso.

Rigoletto irrompe nel cursus compositivo di Verdi come un fulmine a ciel sereno, dando slancio, linfa e vigore a un uomo triste, profondamente pessimista. Verdi, all’epoca, è schiacciato dal peso del provincialismo di Busseto, che metteva alla gogna la sua relazione con Giuseppina Strepponi, e le mormorava contro, additandola di essere un’intrusa, da emarginare, avendo ella preso il posto della povera Margherita Barezzi. A ciò si aggiunga una sorta di temporanea “crisi” in cui il Maestro era caduto tra Ernani e le altre opere, escluse la Giovanna, Macbeth e Luisa Miller.

Lasciata Trieste dopo la messa in scena di Stiffelio, Verdi ritorna a Busseto in un buio e malinconico novembre (del 1850) e si dedica esclusivamente alla stesura di Rigoletto. I ritmi sono serrati e dalla corrispondenza con Piave emerge un alacre impegno lavorativo: i due lavorano ventre a terra per rispettare gli impegni assunti con il Teatro. Gli ordini di Verdi a Piave sono puntuali e perentori. Così scrive al librettista:

“non avere ostacolo né per la divisione delle scene né per il verso. Stai pure attaccato al francese e non sbaglierai”.

Verdi è convinto che tutto sia già scritto nel testo letterario di Hugo. Al di là di ciò, in realtà Verdi ha fretta, arde in lui una forte bramosia di successo, sorretta dalla consapevolezza di comporre un capolavoro musicale.

C’è ancora incertezza sul titolo. Assodata l’impossibilità di tenere quello del dramma di Hugo, Verdi scrive a Piave dicendo che:

“…il titolo deve necessariamente [essere, ndr] la Maledizione di Vallier, ossia per essere più corto la Maledizione”.

Il tema della maledizione è il nucleo contenutistico sul quale Verdi innesta il significato umano di Rigoletto.

“Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche immorale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte, che il padre maledice, e questa maledizione che coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande”.

Per Verdi il cuore dell’opera è già tutto racchiuso in queste frasi. Il tema di un fato beffardo che guida e comanda gli uomini come burattini. Qui emerge la moralità di Verdi, schietta e pragmatica, come si confà a un uomo di campagna, un self made man, tanto crudo e generoso nelle relazioni interpersonali, quanto cruda e generosa è stata la vita con lui.

Ma la Maledizione è titolo che non convince Piave e in questo contesto iniziano a frapporsi gli ostacoli della censura, che denuncia Verdi e Piave di non aver “saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti, che quello di una ributtante immoralità e oscura trivialità, qual è l’argomento intitolato la maledizione” (lettera del censore di Venezia del 1850).

Bisogna attendere l’antivigilia di Natale del 1850, quando Marzari, Presidente de La Felice, scrive che il Direttore di Polizia di Venezia, Martello, così aveva disposto:

“fermo il pensiero di variare, com’ella stessa acconsente, luogo ed epoca dell’azione, verranno conservate al libretto stesso le tinte e i caratteri originali ch’Ella desidera. Il personaggio sostituito a Francesco [….] Il buffone potrà essere deforme com’ella desidera”.

Dopo mille peripezie, e giungendo a un buon compromesso, la dispensa della censura arriva e il dramma è pronto. Il senso non è stravolto. Il re di Francia è diventato Duca di Mantova e la data dell’azione fa un salto indietro, la corte rinascimentale, appunto. Ma questo a Verdi non interessa, perché il gobbo, il buffone, è lì, come lo aveva ideato e voluto lui, sin dalla prima nota e dalla prima misura. L’autore riesce a mantenere inalterati buona parte dei dialoghi e due particolari scenici ritenuti essenziali (la gobba di Rigoletto e il sacco in cui Gilda morente è raccolta). Il titolo viene quindi scelto, definitivamente, in Rigoletto (da Triboletto, che deriva dal verbo francese triboler, far ridere).

A scrivere tutta l’opera ci impiega circa 40 giorni. Come di consueto, Verdi arriva a Venezia con lo spartito per canto e pianoforte. “Intanto che faremo le prove” avverte, il Maestro, “io lo istromenterò”.

La prima si celebra l’11 marzo del 1851. Il successo è grandissimo e il pubblico interrompe più volte l’esecuzione con applausi a scena aperta. Verdi è richiamato sul palco ripetutamente. Da lì in poi un crescente trionfo. Rigoletto entra nei cartelloni di tutti i teatri d’Europa e non conosce, salvo qualche eccezione, momenti di buio. Ma a fronte di questo successo di pubblico, la critica avanza perplessità e muove eccezioni. L’opera è nuova, il lessico musicale troppo diretto e potente e i contenuti psicologici troppo innovativi.

Con Rigoletto, Verdi si affranca dai personaggi monolitici, dalle storie risorgimentali e dai grandi sentimenti della prima metà dell’800. L’unico protagonista dell’opera è l’Uomo, inteso come relitto umano, rappresentato da un buffone abituato a far ridere, pronto a essere deriso e infine pronto al suo riscatto. Rigoletto è anche un padre. Il padre che Verdi non ha avuto (almeno secondo i suoi desiderata) e il padre che Verdi non è mai stato (se non per pochi mesi). Così il Maestro ribalta su Rigoletto l’ideale di padre che si era sviluppata dentro di lui. Un vinto, un umile, un pover’uomo e poi anche un vecchio.

Verdi punta l’occhio di bue su Rigoletto, lo esalta, amplificandone la deformità e la storpiaggine e ce lo restituisce con tutta la sua disperazione, offrendo una verità e un’introspezione psicologica disarmanti. Una verità e un’umanità che riguardano tutti.

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Bibliografia:

GIUSEPPE TEROZZI Di quell’amor, La vita e le opere di Giuseppe Verdi dal1813 al 1858 SugarCo Edizioni s.r.l. 1980.

LEONETTA BENTIVOGLIO (interviste di), Il mio Verdi, Edizioni Socrates, 2000.


 

 

 
 
 

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