L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il primo Turco in Italia del ‘900

 di Gina Guandalini 

La storia affascinante e poco nota della prima ripresa assoluta del Turco in Italia nel XX secolo: non con Callas e Gavazzeni, come spesso si crede, ma negli Stati Uniti.

Mi ha sempre incuriosito il fatto che quasi tutti quelli che scrivono o parlano della rinascita de Il turco in Italia di Rossini nel Novecento indichino la riscoperta avvenuta a Roma nel 1950 con la Callas e Gavazzeni come prima esecuzione assoluta del secolo scorso. Anche Wikipedia americana salta dal 1826 al 1950.

Si tratta quindi di ristabilire la realtà. L’8 agosto 1948 quest’opera di Rossini veniva presentata al Festival di Tanglewood negli Stati Uniti, in lingua inglese e con riprese all’opera di Boston due mesi dopo e a Filadelfia alla fine dell’anno seguente. In tutti i tre casi, artefice della riscoperta di The Turk in Italy fu il musicologo Boris Goldovsky, importantissimo divulgatore dell’opera negli Stati Uniti dagli anni ’30 agli anni ’80 del Novecento.

Nato a Mosca nel 1908, Goldovsky era figlio di una nota violinista, Lea Luboshutz. A tredici anni debuttò come pianista alla Filarmonica di Berlino e in quella città studiò con Arthur Schabel. Nel 1924 passò a Budapest dove il suo docente principale fu Ernest von Dohnanyi. Nel ’30 sua madre fu accolta al Curtis Institute di Philadelphia per insegnare tecnica violinistica; suo figlio Boris la seguì e in quell’istituto divenne assistente del direttore Fritz Reiner; grazie alla conoscenza di varie lingue, negli anni ’30 fu direttore del settore operistico nei teatri di Cleveland e Boston e al New England Conservatory, sempre a Boston. Nel 1946 fu invitato dal direttore Serge Koussewitzky ad assumere la direzione del programma operistico al Berkshire Music Festival a Tanglewood. L’anno seguente una ripresa da lui diretta dell’Idomeneo di Mozart fu definita dal New York Times “un superbo esempio dell’abilità di Goldovsky di allestire opere considerate impossibili dalla maggior parte delle compagnie”.

Nel Massachusetts occidentale, a circa 200 Km da Boston, c’è una regione idilliaca di morbide colline verdeggianti, le Berkshires. Accanto alla cittadina di Lenox si trova il Parco di Tanglewood, che dal 1937 è la residenza estiva della Boston Symphony Orchestra (BSO). Koussevitzky, che la diresse dal 1924 al 1949, nel 1936 fondò il Tanglewood Music Center per creare un’accademia musicale di altissima qualità, dove giovani musicisti meritevoli avessero a disposizione un’orchestra raffinata come la Boston Symphony e artisti illustri invitati apposta, per progredire e specializzarsi in tutte le branche della musica. La cosa era stata resa possibile da un regalo munifico, il dono a Koussevitzky e all’orchestra di un magnifico parco privato di 210 acri da parte di due mecenati donne. Una delle due, Mary Tappan, era discendente di una intellettuale che aveva frequentato un giro formidabile, che comprendeva Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau, Nathaniel Hawthorne e il giovane Henry James; il nome Tanglewood (bosco intricato) proviene dai Tanglewood Tales, scritti appunto da Hawthorne quando viveva in un cottage situato sulla proprietà.

Leonard Bernstein, che con Koussevitzky ebbe un lungo e prezioso rapporto musicale e filiale, fu a Tanglewood per la prima volta nel 1940, l’anno inaugurale del Festival, come studente di direzione orchestrale - cinquant’anni più tardi Lennie avrebbe diretto l’ultimo concerto della sua vita a Tanglewood, la Settima di Beethoven. Nel ’40 c’era anche Lukas Foss; Aaron Copland era direttore della Facoltà di Musica. Il Festival si rese subito celebre per le prime americane di musiche importanti: nel 1946 Benjamin Britten arrivò per la prima statunitense della sua opera Peter Grimes, diretta da Bernstein. Bohuslav Martinu, Olivier Messiaen, Dallapiccola e infine Bernstein vi avrebbero presentato loro composizioni in prima statunitense o assoluta. Nel 1951 Bernstein avrebbe dichiarato “Tanglewood non è una scuola in senso stretto; le sue mete sono molto più alte. È un universo musicale dove un musicista giovane è soggetto alla spinta della gravità, a campi magnetici, a impulsi elettrici a variazioni atmosferiche e topografiche. Ciò che Tanglewood spera, e ciò che desiderava Koussevitzky, è che lo studente emerga da questo universo modello con una idea della sua vera orbita; che il giovane pianeta trovi la sua direzione, il senso dei rapporti con i pianeti-colleghi e la sua particolare funzione nel più vasto universo là fuori”.

Un libretto del Turco in Italia fu scritto dal letterato veneto Caterino Mazzolà, amico di Lorenzo da Ponte e di Salieri, e messo in musica dai compositori tedeschi Franz Seydelmann e Franz Xavier Sussmayr rispettivamente nel 1778 e nel 1794. Il testo rimase la base del libretto di Felice Romani per Rossini nel 1814.

Negli anni dell’impero rossiniano il titolo subì molti cambiamenti, anche per evitare assonanze con L’italiana in Algeri. A Roma nel ’15 (edizione tutta ristrutturata dall’autore stesso) diventò La capricciosa corretta; a Vicenza nel 1816 Il Turco deluso. Al Teatro Nuovo di Napoli nel 1820 fu presentato come una farsa con dialoghi parlati, il Poeta era un capocomico che si esprimeva in dialetto napoletano; Geronio era tutore e non marito; l’aria originale di Narciso fu sostituita con quella dell’ Italiana. In quell’anno Ferdinando Paër mise in scena Il turco in Italia al Théâtre des Italiens – di cui era direttore - in assenza di Rossini, con musiche prese dalla Cenerentola e da altre opere rossiniane e di Fioravanti; il compianto Philip Gossett ne ha scritto diffusamente. Un critico del Constitutionnel scrisse che l’opera "étonne presque toujours et charme souvent." Quell’arbitraria “versione Paër” godette di edizioni a stampa francesi e tedesche, che circolavano ancora nel 1997 e come tutte le documentazioni scritte crearono confusione secolare sul vero volto del Turco. Nel 1821 a Londra il titolo mutò in “The Turkish Lovers”.

È noto poi che Il Turco in Italia fece parte della storica stagioncina organizzata da Manoel Garcia Senior a New York nella primavera 1826. La giovanissima Maria Felicia non ancora Malibran, definita dal padre “un’eccellente primadonnina”, vi interpretò il ruolo di Zaida. Alla fine di quell’anno 1826 la North American Review, pubblicò “Il Turco in Italia. The Turk in Italy: an Opera, as performed at the New York Theatre [in Italian and English]“.

Le ultime messe in scena dell’Ottocento risalgono al 1847 a Budapest e al 1882 al Teatro Niccolini di Firenze. Quest’ultimo dato viene attribuito di solito a uno studio sulla storia dei teatri di Firenze pubblicato nel 2010 da Marcello De Angelis; a me fu trasmesso nel 1980 dallo studioso newyorkese Henry Wisneski - autore di un interessante volume del 1976 sulla Callas - che è deceduto nel 1984.

Torniamo a Boris Goldovsky, sempre convinto della necessità di tradurre le opere in lingua inglese per il pubblico americano. Il libretto del Turco di Felice Romani fu tradotto, rielaborato e sintetizzato per Tanglewood da lui e da Sarah Caldwell (1924-2006), bambina prodigio al violino, organizzatrice teatrale, regista e direttrice d’orchestra all’opera di Boston dal 1952 al 1990 (dove fu essenziale nel promuovere le carriere di Beverly Sills e Placido Domingo fra gli altri).

Il programma di sala di Tanglewood 1948 spiega che l’incapacità del Turco di reggere al passare del tempo era dovuta, secondo Boris Goldovsky, all’inconsistenza (looseness) della trama, cosa che ha condannato tutte le opere di Rossini - ad eccezione del Barber of Seville - allo stesso destino. Goldovsky ha tenuto ben presente che il compositore si sentiva libero di ristrutturare le sue opera quando lo riteneva giusto e di recuperare musica da questa o quella sua partitura che non aveva più resistito sulle scene. Mr. Goldovsky ha riordinato i numeri musicali e ha reso più concisa la trama. “La nuova versione” egli afferma “conserva tutto il fascino della deliziosa musica di Rossini, mentre il plot riveduto rende la storia più accetta ai pubblici del giorno d’oggi”. Più importante del Turco del titolo è il poeta, che “vive al proscenio, scrive praticamente l’opera mentre si svolge ed è in rapporti di uguale cordialità con le persone ai due lati del sipario”

Premesse discutibilissime, soprattutto da cinquant’anni a questa parte, ma che nel 1948, quando Pirandello e Thornton Wilder erano più conosciuti e idolatrati di Rossini, avevano una loro validità – e furono dibattute dalla critica italiana anche all’indomani dell’edizione romana del 1950. Lo sconcerto del rossiniano di oggi aumenterà apprendendo che a Tanglewood la musica era stata revisionata con orchestrazioni aggiuntive di Helmuth Wolfes (1901-1971, direttore e musicologo tedesco, attivo a Tanglewood dal ’38); il testo, si è detto, fu rivisto da Boris Goldovsky. “Traduzioni e recitativi di Boris Goldovsky e Sarah Caldwell” – che era anche direttrice del coro – recita il programma di sala. Direttore e regista Goldovsky, scene di Nassan Abiskhairoun (1915-1992, scultore e in seguito mercante d’arte egiziana); costumi di Leo Van Witsen (1912-2009; oggi le sue maquettes sono custodite alla Houghton Library di Harvard). Direttore tecnico Robert J. Lowthers. Abiskhairoun e Van Witsen erano studenti di Tanglewood alle loro prime prove.

Una curiosità: elettricista principale era Burton Bernstein, fratello minore del celeberrimo direttore e compositore. Non risulta che Leonard fosse a Tanglewood nella prima metà dell’agosto 1948. Nell’aprile ’55, impegnato alla Scala, assistette molto probabilmente al Turco in Italia Zeffirelli-Callas, ma nelle sue lettere non parla di quella riesumazione di sette anni prima.

Una student preview l’8 agosto 1948 e poi due recite il 9 e l’11 agosto furono il bilancio di questa riscoperta al Festival di Tanglewood. A cantare il personaggio senza sostituzioni furono il baritono Marshall Heinbaugh, Selim, e i soprani June Gardner, Fiorilla, e Adele Addison, Zaida. Come Geronio ci fu Arthur Schoep il 9 e Robert Goss l’11; nel ruolo del poeta James Pease sostituì Francis Barnard l’11 agosto. Narciso fu David Lloyd il 9 agosto e David Garen l’11.

Nel coro di quel Turk in Italy figurano i nomi del soprano Phyllis Curtin (1921-2016, dalla brilliante carriera che spaziava da Mozart alle prime mondiali delle opere di Carlysle Floyd) e del tenore David Poleri (1921- 1967, attivo anche alla Scala e a Firenze, ha registrato con il direttore Charles Munch ); il livello vocale di Tanglewood era sostanzialmente alto e comunque professionistico. Il primo Selim del ‘900, Marshall Heinbaugh, ha avuto una lunga carriera di cantante bachiano e di docente. Anche June Gardner, la Fiorilla di Tanglewood, ha tenuto a lungo Bach in repertorio, come si può ascoltare dai suoi dischi, come la Messa in SI min, incisa nel 1960 accanto ad Anna de’ Cavalieri o Anne McKnight. Il Geronio della prima recita, Arthur Schoep, fu regista e docente di recitazione alla North Texas State University fino all’86. Nel ’57 allestì e diresse a Harvard Livietta e Tracollo di Pergolesi. Sue sono interessanti raccolte di arrangiamenti vocali di arie del ‘600 e ‘700, pubblicate ai primi degli anni ’70, che gli studenti di canto americani compulsano ancora. Il secondo Narciso, David Garen, era un sopravvissuto del lager di Theresienstadt o Terezìn, il primo luogo punto di concentramento di artisti e musicisti ebrei della Cecoslovacchia. Attivo negli anni ’50 , registrò il ruolo di Rodolfo in una Bohème diretta da Carl Bamberger e il Requiem di Verdi.

Ma due sono forse le vere star di quella poco nota riesumazione rossiniana. L’interprete di Narciso della prima recita, David Lloyd (1920 – 2013), è stato tenore nel repertorio antico, docente e organizzatore musicale. Al Festival di Tanglewood Koussevitzky lo volle come solista nella Nona di Beethoven e come protagonista di Albert Herring nella prima esecuzione di quest’opera di Britten al Festival – anch’essa allestita da Goldovsky. Lloyd cantò anche a Glyndebourne, e incise dischi con direttori del calibro di Rainer, Walter e Mitropoulos. Lo si può ascoltare nel Messiah di Haendel diretto da Bernstein, accanto ad Adele Addison, Russell Oberlin e William Warfield. E qui veniamo all’interprete di Zaida di quelle recite. Afroamericana, nata nel 1925, graziosa, musicalissima, la Addison alternò il repertorio operistico di coloratura all’oratorio e alla musica da camera. Fu tra le collaboratrici preferite di Bernstein, che a lei fra l’altro affidò – oltre che il Messiah di cui si è appena detto – la registrazione del Time Cycle di Lukas Foss, ciclo di songs che il grande Lenny aveva seguìto fin dal loro primo germinare nella mente dell’amico e collega. La Addison illumina anche – è il caso di dirlo – l’album 12 Poems Of Emily Dickinson di Aaron Copland, che fu insignito di un Grammy nel 1967.

Il giornale The Berkshire Eagle di Pittsfield, Massachusetts il 10 agosto 1948 scrisse :“[Quest’opera] è caduta nell’oblio più per colpa della sua trama da opera bouffe, secondo Goldovsky, che a causa della sua musica. La presentazione di ieri sera ha consistito nella ristrutturazione della musica di Rossini e di una quasi-riscrittura della trama. Ci sono sei personaggi che prendono parte a una gran copia di ricchi numeri vocali concertati. La messa in scena è la migliore mai realizzata dagli studenti di Tanglewood. I meriti principali, tuttavia, dovrebbero andare a Mr. Goldovsky. La modifica nella storia, per rendere la parte del poeta, nell’originale un ruolo insignificante, uno dei personaggi più importanti, è forse un po’ scrittura autobiografica da parte di Goldovsky. In ogni caso, quel personaggio diventa una specie di direttore di scena come in Our Town (“Piccola città”) di Wilder, che ci racconta continuamente l’azione che sta per avere luogo…Il poeta entra ed esce dall’azione come Mefistofele” Pochi giorni dopo un periodico ben più autorevole, il New YorkTimes, in una recensione genericamente positiva, definì Il turco in Italia “flop dimenticato”.

Inutile cercare nei recensori considerazioni belcantistiche o vocalistiche o rossiniane; l’attenzione si focalizzava sulla costruzione teatrale e sulla sua validità.

Due copie del libretto in inglese sono conservate al New England Conservatory (NEC) di Boston, mentre alla Biblioteca del Congresso di Washington c’è la registrazione su sei dischi analogici a 33 giri della recita dell’8 agosto, con qualche lieve perdita di suono al termine di ogni lato. Le discografie del sito OPERADIS, tra le più complete, non la citano.

Mi sembra improbabile che il vociomane di oggi desideri ascoltare quel lontano rifacimento eseguito da studenti statunitensi quando la Callas era sconosciuta e la Rossini Renaissance era ancora in mente Dei. Però intanto un titolo sconosciutissimo riprendeva a respirare, e non nella patria di Rossini. Nel novembre seguente la rivista The Music Box pubblicava una cronaca dettagliata della ripresa all’Opera di Boston; sede invernale e “legittima”, non Festival estivo.

Boris Goldovsky ha preso un vecchio titolo praticamente dimenticato, lo ha spolverato e ha tirato fuori una versione del Turk in Italy modernizzata, tirata a lucido e immensamente divertente. Goldovsky ha completamente rifatto la trama, trasformato un personaggio minore nel protagonista dell’operetta [sic] e inserito trucchi di regia più noti a Hollywood che su un palcoscenico d’opera. La musica è stata riorchestrata in parte, ma è stata altrimenti lasciata in pace. Il risultato di queste manipolazioni è un’operetta non solo deliziosa da ascoltare, ma anche eccellente teatro. La partitura di Rossini non è particolarmente originale o ispirata, ma è piena di melodia e ritmo – il tipo di cosa che fischietti per settimane dopo che l’hai sentita una volta. E dopo poche battute deboli all’inizio dello spettacolo, l’orchestra, sotto la direzione di Goldovsky, ha suonato con spirito. Il difetto principale del Turk non è nella recita in sé. È poco più che un’opera da camera, e nel vuoto immenso della Boston Opera House, la piccola massa di suono prodotta andava praticamente perduta. Per la maggioranza degli spettatori paganti era abbastanza difficile sentire gli artisti, per non dire la differenza tra fortissimo e pianissimo. Tutti i cantanti erano competenti, ma Adele Addison come zingara Zaida è stata in assoluto la migliore. La voce è ammirevolmente morbida e limpida; ha raggiunto le note più alte senza un accenno di tensione. La traduzione inglese di Goldovsky era completamente intelligibile solo quando cantava lei. Ma anche Francis Barnard, il poeta, e David Lloyd, Narciso sono stati molto bravi. Marshall Heinbaugh, come il turco Selim, era l’unico tra i protagonisti a essere fuori dal suo elemento. Forse era la barba che gli circondava la faccia, ma ogni suono che ha emesso era così soffocato che il palcoscenico sembrava tre volte più lontano del singolo isolato di distanza che presentava nella realtà. I cantanti si sono trovati al meglio durante i molti duetti e quartetti. Particolarmente riuscito è stato il quartetto a cappella nel secondo atto, che in tutti i momenti è stato di intonazione perfetta, con ogni voce in delicato equilibrio. La traduzione è fatta molto bene nell’insieme, e non contiene più elementi farseschi di quanti ne implichi la musica, ma uno dei versi del poeta, “l’incredibile lo faccio subito, per l’impossibile ci vuole più tempo” è parsa un po’ troppo modernizzata. Questo Turk è un’eccellente illustrazione della tesi di Mr. Goldovsky che la buona opera deve essere anche buon teatro.

Trovo su un giornale della Carolina del 1953 il seguente racconto, forse ispirato da un agente:

Adele Addison si è guadagnata la qualità di star presso la New York City Opera e la New England Opera non solo grazie a superlative qualità artistiche, ma anche grazie al duro lavoro e al coraggio. Dopo che si è unita alla compagnia della New England Opera nel ’49, era prevista una recita del Turk in Italy di Rossini a Filadelfia. A causa dell’improvvisa indisposizione del soprano che doveva cantare il ruolo principale di Fiorilla, il direttore , Director Boris Goldovsky si trovava di fronte la possibilità di dover annullare la recita. Ha spiegato la situazione durante una prova a Boston, e la Addison si è offerta di imparare il ruolo, uno dei più difficili della letteratura operistica. Goldovsky ha deciso di permetterle di tentare e ha cominciato a prepararle la parte nel treno notturno per Filadelfia. In quattro giorni Adele ha imparato tre arie, cinque duetti, sei concertati, un quartetto, e tutta l’azione scenica che li accompagna. I critici di Filadelfia hanno definito la sua esecuzione ‘una delle migliori della serata’ La Addison ha replicato il suo successo due settimane più tardi alla Boston Opera House, e ha ottenuto straordinari elogi dai critici bostoniani.

È molto interessante leggere che il ruolo di Fiorilla è “uno dei più difficili della letteratura operistica”; ma la contabilità dei numeri che lo compongono sembra inesatta: quali sono le “tre arie”? Inoltre l’intero episodio della sostituzione lascia perplessi: il compianto Frank Hamilton, esatto e alacre cronologo della Callas e di Corelli, nella sua cronologia dell’opera di Filadelfia elenca come Fiorilla dell’unica recita del 20 ottobre ’49 June Gardner, come a Tanglewood nell’agosto ’48 e a Boston nel novembre seguente. Esiste un programma - libretto di TheTurk in Italy indicato come “Boston 1949”, che alla Addison attribuisce ancora e sempre la parte di Zaida.

Quando, all’inizio del ’49, si riunirono a Roma i musicologi e gli intellettuali che programmarono la sfortunata stagioncina dell’Anfiparnaso al Teatro Eliseo nell’autunno 1950, c’è da chiedersi se le riprese statunitensi dell’obsoleto titolo rossiniano fossero, nel bene e nel male, conosciute. Esisteva, alla fine degli anni ’40, un contatto tra Tanglewood e Roma? Due intellettuali interessati alla cultura americana come Visconti e Soldati possono avere avuto notizie dal New England? Petrassi e Dallapiccola erano forse in contatto con i festival statunitensi? O furono due formidabili organizzatori come Guido M. Gatti e Simone Cuccia – che dell’Anfiparnaso fu direttore artistico e scelse il titolo rossiniano e il soprano Meneghini Callas – ad apprendere della riscoperta di Goldovsky? O si trattò della semplice coincidenza per cui la stessa idea viene a persone diverse distanti nello spazio, come l’invenzione del telefono per Meucci e Bell?

La figura di Boris Goldovsky resta comunque fondamentale nel suo ambito nazionale. Gli appassionati del belcanto, o se si preferisce del grande canto, conoscono due interviste da lui fatte a Rosa Ponselle nel ’54 e ’57, all’epoca radiotrasmesse; in esse si discute di molte questioni fondamentali di emissione e di repertorio sopranili. Il baritono Sherrill Milnes, che nel ’60, a 25 anni, iniziò la carriera entrando a far parte dell’ Opera Theater di Boris Goldovsky, lo ha descritto come “uno dei più importanti divulgatori dell’opera del nostro tempo”

Il rifacimento in inglese di Goldovsky è rimasto nella pratica dei teatri americani fino agli anni ’70. Quando nel 1978 Beverly Sills, in fine di carriera, affrontò il Turco alla New York City Opera e a Los Angeles, facendo dell’aria di Fiorilla “Squallida veste e bruna” il clou pirotecnico della serata, lo cantò nella nuova traduzione in inglese del musicologo Andrew Porter.

 


 

 

 
 
 

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