L’Ape musicale

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Jago: Maurel e non solo

Victor Maurel fu grande interprete di certo, primo Falstaff e primo Boccanegra nella seconda versione dell'opera, ma anche uomo e collega decisamente poco gradevole se anche quel bonaccione di Tamagno si univa a coloro che lo consideravano uno Jago perfetto in tutto e per tutto, dentro e fuori scena. Di lui resta, purtroppo, solo il Sogno “Era la notte, Cassio dormiva”, che tuttavia rappresenta anche la pagina più interessante da analizzare per la minuzia d'indicazioni disseminate da Verdi. Il Credo può maggiormente risentire, nel bene e nel male, del gusto di un'epoca, della personalità dell'interprete, con variabili comunque non indifferenti fra letture più asciutte e più torve, più retoriche e tronfie o più sibilanti, sulla sottolineatura di questo o quel verso. Certo, non si assiste a eccessi grandguignoleschi, bensì a libertà più o meno marcate soprattutto a livello ritmico e metrico, come dimostra Eugenio Giraldoni, il primo Scarpia, che plasma talora a suo piacimento accenti e durate, ma con un'indubbia finezza teatrale. Pasquale Amato è più preciso, pur col la tendenza, assai diffusa, ad anticipare lo Stringendo poco a poco di “E credo l'uom” già a “che tutto in lui è bugiardo”; è anche il primo, fra gli esempi proposti, a inserire la risata finale. Titta Ruffo è ancora, e ancor più, attento al tempo, ma non rinuncia a corone anche arbitrarie (quanto è più esteriore e meno incisiva quella sull'ultima sillaba di “sacrificio” che Verdi vorrebbe croma puntata e semicroma dopo la minima della penultima sillaba!) appiattisce leggermente le dinamiche (in particolare lo scarto fra la f di “Credo con fermo cuor” e le ppp di “Siccome crede la vedovella”, praticamente annullato); interessante come rende la salita al Fa di “iniqua sorte”, allungando la seconda I, evidentemente più comoda, con un effetto quasi di appoggiatura Mib-Fa, o, meglio, di portamento, se vogliamo vedere nella diffusione di quest'ultimo nel gusto verista anche una semplificazione di appoggiature e acciaccature della prassi belcantista. Questo portamento è ripreso da Galeffi, che dà alla “vedovella al tempio” un incedere un po' troppo piagnucoloso e opta per una corona finale che lascia spazio solo a un breve ghigno. Sulla stessa linea si pone Viglione Borghese, meno vario dinamicamente, che rinuncia completamente alla risata finale sostituendola però con una corona decisamente prolissa. Corona e risata si trovano, invece, nell'incisione di Giuseppe Danise, il più retorico e datato nel fraseggio, ma comunque assai impegnato nel dare a suo modo un'anima al pezzo, anche sforzandosi di dare accenti e chiaroscuri.

Per quel che concerne il Brindisi potremmo notare il tempo rilassato di un Amato la chiarezza di superiore dicitore di Stabile e una certa qual pesantezza nell'intenzione verdiana di Manfred Gurlitt sul podio di un'edizione in tedesco con il baritono Heinrich Schlusnus. La miriade di indicazioni verdiane (terzine, abbellimenti, punti, legature, chiodi, mezzavoce, pp, ff, mf ecc) non si palesano sempre nettissime nella realizzazione, specie nel caso di Pasquale Amato e Riccardo Stracciari, che nel 1925 spiana il trillo sul Fa# del primo “strambo”; decisamente più attendibili Gurlitt e Stabile, per timbro e musicalità possibile erede, almeno in parte, di Maurel.

Era la notte, Cassio dormia

E di Maurel, come dicevamo, abbiamo il Sogno, nel quale i confronto con tutti i suoi successori è impressionante. Il baritono francese, a cinquantasei anni non è al massimo della forma, non sembra particolarmente a suo agio di fronte al cono in cui si doveva cantare per incidere acusticamente, tuttavia un orecchio attento può cogliere l'ampiezza e la brunitura naturale della voce, limpida perché idealmente sostenuta sul fiato, benché in questo caso e l'età e la situazione giochino presumibilmente qualche scherzo al controllo del sostegno. La posizione, però, è sempre alta, impeccabile. Questa non è una semplice constatazione vociologica, ma è il riconoscimento dello strumento esattamente richiesto da questa pagina in cui pullulano indicazioni di legatura, chiodi, forcelle, prescrizioni di Sotto voce, parlante, legato e strisciando ancora, sempre sottovoce, cupo, tutto in un ambito dinamico che dall'iperbolico ppppppp di “Seguia più vago” si spinge solo a un mf per “in cieco letargo”. Impressiona come Maurel differenzi esattamente la voce melliflua del sussurro di Jago e quella onirica delle frasi di Cassio, che non possono non richiamare alla mente le maniacali indicazione di Verdi a Marianna Barbieri Nini per il Sonnambulismo di Lady Macbeth, da cantarsi quasi senza muover le labbra, in modo pressoché astratto. Non lascia indifferenti il senso del legato fra “cauti vegliamo” e “L'estasi del ciel” ed è da notare l'appoggiatura sulla seconda A di “accanto”, non scritta negli spartiti a mia disposizione (e sostanzialmente disattesa dai posteri) ma simmetrica a quelle prescritte su “Incanto” e “sogno ardente”. Maurel, dopo aver attaccato “Seguia più vago” esattamente come scritto (un autentico miracolo) realizza la forcella del più animato corrispondente fino a una calibrata sottolineatura su “Quasi baciando”, dando intenzione senza tradire comunque l'assenza di indicazioni specifiche verdiane su queste parole. Purtroppo la sua lezione sembra restare isolata e non solo in tutti gli altri esempi il legato è meno puro, ma si trovano anche indicazioni ritmiche, metriche espressive ignorate se non addirittura ribaltate. Il punto chiave dove i baritoni tendono ad allargare gigioneggiando e, talora, sporcando il suono è proprio il “quasi baciando”. Perfino Battistini delude in questo passo, pur cercando di essere più misurato e insinuante, ma attaccando “Seguia più vago” senz'ombra di sottigliezza dinamica. Si fa, allora, preferire Titta Ruffo, che comprende il senso del crescendo in quel punto, attaccando da un onorevolissimo, anche se non impalpabile, piano per chiudere raccogliendo non senza malizia il suono prima allargato in “Quasi baciando”. Oppure Stracciari, che compensa anch'egli un legato non paragonabile con quello di Maurel con un'arte del dire la parola scenica che il tempo non scalfisce.


 

 

 
 
 

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