L’Ape musicale

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Tamagno e i suo successori

Tamagno, per disciplina musicale, ispirò molti dubbi in Verdi al momento della scelta e durante la preparazione, e se in buona parte i timori furono dissipati, fu sempre opinione del Maestro che il lirismo dolcissimo e il fraseggio mobile del duetto d'amore, così come quello doloroso della morte non gli fossero ben congeniali. Opinione, peraltro, tacitamente confermata dallo stesso Tamagno, che preferì sempre includere nei propri concerti l'imperiosità dell'”Esultate” e lo slancio di “Ora e per sempre addio”, cavalli di battaglia che smentirebbero decisamente chi, parlando del tenore torinese, lo contrappone a quella che oggi intendiamo per vocalità drammatica. Tamagno, è risaputo dalle cronache e confermato dal repertorio, fu a tutti gli effetti un tenore eroico, di sonorità tanto poderosa da esser paragonato a un cannone. Ovvio che tali caratteristiche possano facilmente venir frustrate da una registrazione acustica realizzata in tarda età e condizioni di salute non ottimali, ma resta chiaro che l'impostazione della voce fosse saldamente radicata nell'aurea tradizione del belcanto all'italiana, tutta sul fiato. E, dall'ascolto delle fonti anche più antiche, è altrettanto chiaro che la principale discriminante per un Otello convincente non sia quella di una voce più o meno scura, quanto di una voce e di una musicalità più o meno buone e incisive.

Esultate

I pochi versi dell'”Esultate”, già, ispirano molte osservazioni interessanti. Tamagno, come abbiamo detto in condizioni non ottimali, non appare maestro del legato – cosa che, effettivamente, gli venne imputata, anche se le caratteristiche di molti suoi cavalli di battaglia e relative cronache sembrano smentire ogni spigolosità – ma l'incisività dell'accento e la posizione del suono sempre alta e penetrante sono evidenti. L'acciaccatura sulla U di “uragano”, si3-la3, è resa nitidamente con un sol#3-si3-la3 che ribatte il sol#3 croma sulla E di “vinse”, evidente retaggio della prassi esecutiva ottocentesca (e dunque ben presente a Verdi) seguita ancora dagli Otelli più antichi, sfumandosi via via non solo in uno staccato sempre più netto fra “vinse” e “l'uragano”, ma anche in una resa sempre meno scandita dell'acciaccatura si3-la3 fino a scomparire o a trasformarsi in un piccolo portamento. Al di là della prassi esecutiva relativa all'acciaccatura, che si riconduce alla corretta interpretazione di un abbellimento, è da notare anche la libertà di Bernardo De Muro nell'anticipare a “del ciel” la salita al sol#3 di “è gloria” in modo da esibire una maggiore espansione in acuto. Un arbitrio di solfeggio lontano dal gusto moderno funzionale alla personalità dell'interprete, ma che altera la ponderata esattezza della scansione metrica verdiana e gli equilibri che permangono, comunque, anche in altre esecuzioni antiche non troppo precise. Parimenti si nota qualche portamento in più e la tendenza ad allargare quella prima E di “Esultate” che Verdi vuole Forte sul terzo tempo della misura in 4/4, a marcare l'energia dell'attacco ma non con una stasi perentoria e tribunizia, bensì con uno slancio propulsivo che s'irradia nell'intera frase. Tamagno non allarga questo suono centrale, sol#2, ma lo marca con giusto equilibrio anche nell'emissione, equilibrio che non troviamo altrettanto calibrato in De Muro né in O'Sullivan, un buon Otello che pare però sacrificare squillo all'ampiezza dei centri e dei gravi (impressione invero curiosa se destata in registrazione da un cantante che in teatro era famoso per i Si e i Do acuti!). Da questo punto di vista è già da censurare quel che s'intende di Renato Zanelli, ossia un canto di forza assai spinto.

Lauri Volpi è il primo, in questa raccolta, a eseguire l'acciaccatura su “uragano” senza ribattere e includere il sol#3 nel gruppetto, segno che i tempi sono cambiati e che quella tradizione esecutiva si è persa. Non così la tecnica, perfetta nell'emissione alta, sul fiato, penetrante, che gli permette d'essere saettante in alto, anche se meno saldo in basso (anche lui, a quarantanove anni, non era più nel fiore dell'età, benché abbia continuato a saettare acuti senza problemi, se non d'intonazione, ancora per qualche decennio), scarto tanto più evidente se si pensa che l'incisione elettrica coglie meglio gli armonici inferiori e i suoni gravi di quanto non facessero le registrazioni che ci hanno restituito, con ogni probabilità, il timbro di Tamagno e coevi più chiaro di quanto non fosse. L'accento è più pomposo e retorico, l'intonazione non sempre precisissima, caratteristiche note del tenore dei Castelli Romani. D'altra parte, abbiamo detto, le oscillazioni d'intonazione, come le imprecisioni di solfeggio, devono essere valutate con cautela nel caso delle registrazioni più antiche e possiamo estendere la licenza anche a questa elettrica del 1941, se non altro perché Lauri Volpi si potrebbe considerare idealmente come l'ultimo dei tenori ottocenteschi e i suoi noti difetti non pregiudicano l'interesse e l'importanza dei pregi.

La carrellata di “Esultate” si chiude con Del Monaco, certo libero di espremersi in compiaciute e retoriche corone, che convincono e si giustificano da sé comunque più delle variazioni di De Muro. La forza di Del Monaco è subito nel non scurire e allargare troppo il sol#2, senza lasciarsi influenzare troppo dal Forte prescritto e senza cedere alla tentazione che aveva insidiato altri prima di lui. Non si può, però, dire si ponga direttamente sulla scia di Tamagno, come invece fa Lauri Volpi, rinunciando a uno spessore e a un colore che sono la sua prerogativa, ma è evidente che la prerogativa sia naturale, non ricercata a discapito dell'emissione (e questo con buona pace di chi identifica la scuola di Melocchi e la tecnica di Del Monaco semplicemente con un affondo opposto alla posizione alta di un suono che galleggi sul fiato). Molto dello stile ottocentesco sembra perduto, resta l'idea di un eroismo che i tempi esprimono con diversa aulicità. L'interpretazione di Del Monaco ha una precisa, sacrosanta attualità nella sua epoca (la registrazione è del 1951), il canto eccellente per impostazione, senza forzature o camuffamenti.

Anche ascoltando gli altri brani si confermano le impressioni destate dalle diverse letture dell'”Esultate”.

Ora e per sempre addio

“Ora e per sempre addio” registrato da Tamagno nella sua villa di Spedaletti nel 1903 appare oggi di una lentezza estenuante, ancor più stupefacente per chi facesse regola assoluta nella necessità di economizzare al massimo, con tagli e arbitri ritmici, sullo spazio disponibile in dischi e cilindri. Considerare, però, questo tempo “verdiano” in virtù dello studio minuzioso ai limiti dell'esasperante che il compositore impose al suo interprete, al ben noto perfezionismo in sede di prove, sarebbe un clamoroso errore, attestato per esempio dall'aneddoto che tramanda lo scontro fra il tenore piemontese e Toscanini proprio sui tempi da staccare nell'Otello, che Tamagno voleva decisamente rilassati: interpellato, Verdi diede ragione al maestro parmigiano, lodandone la buona memoria (Toscanini era in buca come violoncello alla prima assoluta dell'opera e aveva fatto tesoro delle indicazioni dell'Autore). Peraltro, è comunemente riconosciuta la generale propensione di Tamagno per i tempi più lenti e, fatto di “Ora e per sempre addio” un cavallo di battaglia concertistico anche più dell'”Esultate”, è facile intuire come si sia impossessato del brano derogando man mano alle indicazioni originarie. L'evidenza emerge ancor più constatando che tutti gli altri ascolti sono staccati con un tempo più mosso; si conferma la debolezza dell'Otello di Zanelli, con una tendenza a mandare indietro passagogi e acuti, facile conseguenza di un canto stroppo spinto, mentre desta interesse Léon Escalaïs, che, in francese, accenta con l'incisiva nobiltà propria della tradizione grandoperistica che tanto influsso ha avuto sulla scuola tenorile eroica del tardo Ottocento. Anche il corso César Vezzani ribadisce, pur qualche tensione e imprecisione musicale, l'interesse stilistico dell'Otello alla francese. Fra gli altri, si nota come Icilio Calleja, pur avendo frequentato anche repertorio baritonale, mostri un timbro piuttosto chiaro, un canto assolutamente tenorile reso impacciato da un'eccessiva nasalizzazione. Giovanni Zenatello, l'inventore della stagione estiva all'Arena di Verona, fa intuire una voce di grande ampiezza, come una teatralità efficace per quanto un po' esteriore. Incisi nello stesso 1941, gli Addii di Lauri Volpi (classe 1892) e Martinelli (1885) mettono a confronto l'idea araldica di uno squillo argentino e un canto dal baricentro più centrale (il passaggio nel veneto suona lievemente più nasale e schiacciato), ma sempre schiettamente tenorile e radicato nella tradizione antica, sebbene il laziale risulti retoricamente più pomposo e datato del collega.

Dio! mi potevi scagliar

La difficoltà di “Dio! mi potevi scagliar” è testimoniata ancora una volta da Renato Zanelli, che semplicemente parla nella prima parte, declamando il testo, ma si rifà nel cantabile, realizzando alla perfezione il dolcissimo di “l'anima acqueto”. Il tenore, dunque, non era uno sprovveduto, ma pativa un gusto involgarito che ne pregiudicava sovente la qualità musicale e d'emissione, come dimostra il finale dell'aria: dopo averci illuso torna a essere scomposto e insufficiente. Lo stesso Aureliano Pertile, purtroppo, delude e soprattutto nella conclusione crolla, attacca con bell'accento, perfetto, ma poi non riesce ad addolcire, supplendo con singhiozzi e cadute in un verismo impacciato e fuori luogo.

Colpisce, di contro, Escalaïs, il migliore per senso del testo, per contegno espressivo e musicalità.

Niun mi tema

Verdi dedicò cure maniacali al finale dell'opera e l'ascolto del “Niun mi tema” di Tamagno avrebbe potuto rivelarsi prezioso per cogliere le indicazioni dell'Autore e qualche sfumatura non scritta. Ma se il tenore non sembra curarsi troppo del pp su “Or morendo”, è legittimo intendere la sua lettura come libera e personalizzata nel tempo, in ogni caso davvero commuovente per la passione infusa a pochi mesi dalla morte. Quasi un presagio, un testamento ideale.

In una rosa di voci di estrazione affatto diversa che risolvono la pagina magari con qualche arbitrio ritmico, ma con esiti interessanti, soprattutto per la dignità dolente conferita al personaggio da Giovan Battista De Negri, che raccolse il testimone di Tamagno. Non è da trascurare nemmeno Giuseppe Oxilia, che pure giovanissimo fu fra i primi a sostituire il creatore con il disappunto di Verdi, che non ne vedeva di buon occhio l'inesperienza. Più arbitrario e impulsivo Antonio Paoli, mentre notevolissimo, nonostante le diffuse libertà ritmiche e qualche impaccio nell'accentazione dell'italiano, è l'Otello di Leo Slezak, altro modello esemplare dell'idea ottocentesca di tenore eroico. Renato Zanelli ribadisce, d'altra parte, i limiti del gusto con un “Pria d'ucciderti” verista nel peggior senso del termine: voce gonfia e soffocata, rantoli eccessivi anche in un contesto storico nel quale non rappresentano certo un'eccezione. Francesco Merli è il riconosciuto campione del nuovo tenore drammatico, il passaggio all'acuto è più coperto, concettualmente non sembra più contemplare le categorie del “colore chiaro” e “colore scuro” codificate negli scritti tecnici del Garçia, ma ricercare una brunitura omogenea, gestita nel suo caso a meraviglia. Le ultime battute, è vero, integrano nel canto un realismo estraneo alla concezione ottocentesca dei primissimi Otelli, ma non paiono mai, come invece in Zanelli, giustapposte alla linea musicale, né comportano cedimenti tecnici e vocali. D'altra parte, il duetto “Già nella notte densa” proposto integralmente conferma la grandezza leggendaria, anche nei passi più lirici, di un tenore che ha avuto il torto di avere fra i suoi epigoni troppi cantanti portati a spingere senz'arte.


 

 

 
 
 

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