Sì. Pel ciel marmoreo giuro
La raccolta si chiude con cinque strette del finale secondo. “Sì. Pel ciel marmoreo giuro”. Zenatello e Amato staccano un tempo particolarmente lento anche per l'indicazione Molto sostenuto e solenne prescritta da Verdi, che mai, comunque consente di stringere come tendono a fare, nelle ultime battute, troppi direttori. L'incedere degli altri esempi appare, invece, più omogeneo e meno stentato.
Ascoltando nel 1914 Enrico Caruso e Titta Ruffo si capisce chiaramente perché questi due cantanti hanno segnato un punto di svolta nella storia delle rispettive vocalità: in nessun'altra registrazione acustica le voci sono rese così scure e corpose al centro, modellate, insomma, su un'estetica che non è più quella ottocentesca, che intende la drammaticità con un accento più sanguigno, con colori più foschi e carnosi, perseguendo l'ideale di forza e omogeneità. Tale forza dal punto di vista interpretativo si traduce, invero, più che in un giuramento, per quanto fosco, in una sfida. Lo stesso senso di tempestoso duetto vocale s'intende in quella che sembra una risposta a distanza incisa dal battagliero Lauri Volpi con un baritono chiaro come Mario Basiola: nel 1941 un'affermazione delle radici ottocentesche dopo il sorgere di una diversa estetica del canto. Estetica che, però, abbiamo visto non potersi contrapporre con assoluta nettezza e certi confini anche cronologici a quella belcantista. Gli elementi si compenetrano, le tendenze si confrontano contemporaneamente e si mescolano, con esiti più o meno convincenti su ogni fronte e nelle posizioni intermedie. La discriminante si conferma quella che abbiamo annunciato in principio: la bontà della tecnica, della musicalità, dell'interpretazione. Buone e cattive allora come oggi, ciascuna nel proprio tempo, dal proprio tempo condizionata ma in grado di parlare, di offrire spunti, dare lezioni ma anche di mostrare errori da cui guardarsi ai posteri.
Lo confermano anche le altre due coppie proposte nella fatidica stretta: Nicola Fusati in registrazione pare tenore leggero e nasale, nemmeno paragonabile, qui, agli alfieri della tradizione eroica ottocentesca, mentre Stracciari, messi da parte gli impacci con la coloratura del brindisi, fa valere tutta la sua autorità drammatica, chiaro o meno che appaia il timbro. Viceversa il pur glorioso Benvenuto Franci, con un eccessivo vibrato, resta in ombra di fronte a un Pertile del 1928, che riscatta pienamente l'ascolto tardivo di “Dio mi potevi scagliare” con tutta l'autorità di uno dei massimi tenori verdiani di tutti i tempi, capace di scandire la parola, anche a costo di apparire talora forse un po' pesante al gusto moderno, l'ampiezza della frase, la saldezza dell'emissione in tutta la tessitura. Otello tenore, ma soprattutto ben cantato e attento al testo. Come deve essere.