L'arte e la vita
di Andrea R. G. Pedrotti
Incontriamo Renato Zanella: uno dei più importanti coreografi e direttori di corpo di ballo italiani. Veronese, classe 1961, presta la sua professionalità artistica alla Fondazione Lirica della sua città natale. Fra le onorificenze ricevute ricordiamo la Croce d'Onore Austriaca per la Scienza e le Arti e numerosi riconoscimenti nazionali, sia in qualità di direttore artistico sia in qualità di coreografo.
Le sue esperienze più significative da rammentare sono quelle allo Stuttgarter Ballett, alla Wiener Staatsoper e all'opera Nazionale di Atene. Oggi, alla vigilia dell'inaugurazione della stagione invernale di balletto della Fondazione Arena di Verona, ci offre l'opportunità di avere un bilancio, dalla sua stessa voce, degli ultimi due anni in riva all'Adige, aperti nel 2013 proprio dallo Schiaccianoci à la carte.
Dopo due torna lo Schiaccianoci à la carte, il tuo primo lavoro alla Fondazione Arena. Vuoi parlarci di questo spettacolo?
È stato un inizio, la mia prima produzione come direttore a Verona. Uno spettacolo nato per uno dei teatri più piccoli della città, con i ballerini molto vicini al pubblico e senza l'orchestra, perché con la presenza della buca lo spazio si sarebbe ridotto eccessivamente. Volevamo far vedere questa compagnia d'autore e far conoscere che cosa fossimo con Zanella a Verona e che cosa stessimo costruendo. Prima che direttore di corpo di ballo sono sempre stato coreografo; quando sei ospite non puoi dare un'impronta. A Verona mi sono sempre trovato molto bene e ho sempre trovato molta ispirazione. La stagione invernale comincia sempre a dicembre fra Santa Lucia e Natale. Ho preso questi due momenti attorno allo Schiaccianoci di Čajkovskij. La nostra vita quotidiana con i suoi piccoli segreti e l'ultima lezione di danza prima di Natale e delle ferie, con un'idea espressiva neoclassica, mentre la seconda più sciolta mutando lo stile, sull'onda jazz della musica classica arrangiata da Ellington. Il finale vuole essere un segno di ottimismo, nella speranza che il futuro possa essere migliore.
Lo spazio del Teatro Ristori si presta a questo tipo di spettacoli?
Ci sono delle quinte molto strette ed esistono delle difficoltà, ma è un teatro che adoro e mi piacerebbe molto proseguire nel rapporto. È uno spazio che si presta a puntare sulla creatività; d'altra parte sono stato chiamato a Verona per questo, per cercare di creare qualcosa di bello, d'autore, in una città con una grande storia nell'ambito della danza, consci delle difficoltà economiche del momento. Amo mettermi in gioco e non potrei lavorare senza creare delle nuovo coreografie; nel momento in cui mi si parla di repertorio non si può sempre restare legati al costume di riproporre vecchi lavori. L'artista non deve regolarsi sulle aspettative del pubblico, non è un politico. Bisogna creare continuamente emozioni, senza badare alle statistiche legate alle tendenze del momento. Il confronto e il dialogo sono le cose più belle che esistano attorno all'arte.
Anche a Vienna avevi portato delle innovazioni?
Sì, tutto quello che ho fatto a Vienna è stato molto ben visto. La scelta di un artista di qualsiasi ramo sono basate sulla varietà della programmazione; non vogliamo imporre al pubblico una sola scelta, ma il panorama dev'essere ampio. È importante il contrasto interno nel proporre produzioni storiche e produzioni contemporanee a noi. Se si pensa solo allo sbigliettamento, ovviamente, tutto diviene più difficile.
Abbinare l'innovazione al repertorio?
Una base di repertorio è fondamentale, unito a nuove coreografie, nuovi interpreti, nuove bacchette. È bello proporre al pubblico anche spettacoli noti, ma con una diversa gamma di emozioni, ottenuta grazie ad artisti differenti.
A Verona non abbiamo un grande pubblico; la stagione invernale ha un bassissima circolazione turistica e dobbiamo entrare nel cuore dei nostri concittadini. Le persone non si mettono in macchina nella nebbia per venire in città. L'idea di portarmi a Verona è partita proprio con l'intenzione di avere una nuova linea e ci siamo riusciti, con una creazione dopo l'altra.
E in Arena? Quando viene richiesta una coreografia, come in Un ballo in maschera [leggi la recensione]?
Quella fu la mia prima produzione in Arena, un numero staccato dal resto del dramma con dei costumi marcatamente disegnati in stile barocco. Era uno sviluppo. Già come ballerino, prima che come coreografo, amavo cambiare gli stili. La mia cultura viennese di tanti anni mi ha consentito di prendere parte a più di una trentina di opere, in collaborazione con il regista, a partire dal 1997.
Un ballo in maschera fu la classica produzione dove si deve rispondere alle esigenze del regista con una funzione specifica per creare una determinata atmosfera, all'interno di una determinata scenografia.
Un corpo di ballo, quello areniano, abituato a cambiare gli stili.
Sì, e lo rispetto molto per questo. Nel dittico fra El amor brujo e Cavalleria rusticana [leggi la recensione]abbiamo fatto vedere proprio questo, come il corpo di ballo possa offrire un ottimo livello in un contesto specificatamente di danza, sino a essere parte di un'opera. Per esempio, prima del duetto fra Alfio e Turiddu, i ragazzi avevano una piccola parte nel tempio e l'hanno realizzata benissimo. È uno dei pochi corpi di ballo al mondo capace di avere una doppia identità, senza sentirsi frustrato all'idea di avere una parte non principale all'interno di un melodramma.
Medea al Teatro Romano?
Per me è stata una produzione straordinaria ed emozionante. Ero in platea quando fecero Zorba il greco di Mikīs Theodōrakīs e fu una grande emozione ritrovarlo dopo più di trent'anni. Ho avuto varie fasi nella mia carriera, a partire da un gusto neoclassico, molto tecnico fino ad avvicinarmi al teatro, anche con elementi di una danza moderna che ho sempre amato ballare. In fondo la musica era tratta da un'opera di Theodōrakīs e rappresentarla al Teatro Romano è stato molto suggestivo, così come portare questo lavoro a Treno, dove abbiamo avuto un'ottima risposta. È stato uno dei momenti più belli della mia carriera. Io ricordo sempre ai ragazzi aggiunti che sono un gruppo che deve dare un'idea di unicità, sono molto severo in questo. Un ballerino deve mostrare chiaramente di essere tale e non confondersi con mimi o altri figuranti.
Finita la stagione estiva 2014, ricordiamo Valzer &Co., rappresentata sempre al Ristori, nel periodo natalizio [leggi la recensione].
Era la riproposizione di uno spettacolo nato a Vienna, Alles Walzer, ma con dei numeri aggiunti e delle tinte più cupe. C'era una chiara impronta viennese.
C'era anche una trama.
Era la mia storia, trasposta in chiave femminile perché la danza è donna. Volevo ricordare la mia vicenda, quando arrivai in città per dirigere una delle più grandi compagnie del mondo, composta da più di novanta ballerini. Conoscevo la città solo da biografie, storie, leggende e case dei più grandi musicisti di tutti i tempi. Mi trovavo a passeggiare per quelle vie, che non sono cambiate affatto, dopo tutti questi anni e capitava, e capita ancora oggi, di avvicinarsi a una finestra e sentire un violinista, un pianista o un arpista; tutti i varii studenti che provavano. L'arte era questo, portare bellezza e allontanare il negativo. Ho ancora casa a Vienna e mi piace sempre passeggiare per queste vie, ripensando agli studenti che magari ora sono diventati famosi musicisti. Ovviamente a monte di ogni cosa sta del duro lavoro, come in una miniera, dalla quale però possiamo estrarre una bella pepita d'oro. A Vienna ho imparato a essere un creatore e a creare e a cercare il nuovo. Mi piace dire che siamo dei deliranti, dopo uno spettacolo siamo soli, e questo è il percorso della creatività. È una missione e sono venuto a Verona anche per questo: per comunicare.
Vorrei che quello che accade a Vienna accada anche a Verona, che offre molto durante l'estate, ma l'inverno è dato a noi, per continuare a far conoscere molte cose ai cittadini.
Qual era il significato di chiudere così malinconicamente Valzer &Co?
Era la storia di una carriera e l'adagio conclusivo rappresentava la fine di uno spettacolo, quando ci si siede nel proprio camerino ed esce fuori l'essere umano. Era una cosa molto costruita, quasi forzata, frivola con le musiche di Strauss, così ricche di spensieratezza. Un momento meditativo, un omaggio all'amore, all'amicizia, a forze che si aiutano fra di loro. Quel messaggio che ci viene dato da qualcuno che ci prende per mano. Una lettera d'amore, come quella di Mahler alla moglie Alma, non è triste, è qualcosa di vulcanico di trattenuto. Un sentimento puro ed esplosivo che aveva bisogno di essere trasmesso. Mahler era un uomo molto introverso e aveva bisogno di esprimersi. All'epoca della creazione, a Vienna, abbiamo avuto l'idea di entrare in un tunnel e vedere la luce. Alma, rappresentava per Gustav Mahler la luce. Il suo nuovo giorno.
La persona che appare all'inizio del balletto incontra l'amore, la felicità, si analizza e trova la serenità. Mahler fa ancora venire le lacrime quando lo ascolto ed è stato Vienna per me. Non si può giudicare quando non si è visto, non si è conosciuto, non si sa. Dobbiamo essere comunicatori e portare qualcosa agli altri. In tutte le composizioni c'è biografia; per questo, prima di affrontare un lavoro devo conoscere l'autore, la sua biografia e le fasi della vita in cui il compositore ha scritto una certa musica.
Poi XX secolo [leggi la recensione].
È stato un anno straordinario per intensità. Erano tre produzioni importanti che rappresentavano tre importanti fasi della mia vita e della mia carriera e l'opportunità far eseguire a nuovi interpreti questi lavori, sempre nell'ottica di una compagni d'autore.
Anche il dittico fra El amor brujo e Cavalleria rusticana è stata una bella esperienza.
È stata una bella idea di Gavazzeni, quella di unire l'opera di Mascagni con un balletto in un dittico. Io ho pensato di farne una trama unica, senza intervallo. Il balletto era la notte prima della tragedia, dove si consumava il tradimento di Turiddu, infatti Lola e Candela erano la stessa interprete. La musica spagnola è spesso vista come qualcosa di molto erotico, molto carnale. Era una cosa carnale, che diventava una sorta di grande preludio. Un altro problema era che ci trovavamo in un contesto scenografico unico. Anche in questo un bel lavoro di squadra con una scenografa bravissima e un ottimo disegnatore luci. È stato il lavoro più completo e professionale che ho fatto a Verona. Terrò sempre nel cuore questo grande successo e questo riscatto della mia figura di regista. Ho avuto un ottimo rapporto con coro e orchestra.
Era presente un grande studio anche nei movimenti delle masse.
L'inizio di Cavalleria rusticana con il risveglio del paese la mattina di Pasqua, dopo il peccato della notte, e la caduta di Turiddu sull'ombra della croce, dopo un duello combattuto a vista.
Corpo di ballo anche nel brindisi.
C'è la speranza fino alla fine che la tragedia non si consumi. Non dobbiamo sempre raccontare le storie nello stesso modo, perché va stupito il pubblico che conosce già l'epilogo. Volevo riproporre il giustizialismo del paese, ponendo Lola stessa a gridare “hanno ammazzato compare Turiddu”. Lola è, infatti, colei che apre e chiude questo dittico.
Anche qui notiamo il tormento interiore.
Anche quello di Santuzza, di lei e di tutte le donne. Santuzza non cade, perché è lei ad aver commesso un atto di giustizia, che può essere punito, come accadeva alle adultere del passato e, purtroppo, anche del presente. Santuzza fa l'ultimo tentativo con Turiddu, per poi confessare l'accaduto nel bellissimo duetto con Alfio. Ildiko Komlosi era entusiasta dell'idea di mostrare Santuzza che si ricompone, intanto che tutte le altre donne cadevano, perché non avevano avuto la sua stessa forza. In Grecia ho visto molto del vecchio Mediterraneo e ho avuto ispirazione da questa esperienza. Spero che questo dittico venga ripreso, perché è stata una nostra produzione di successo per la Fondazione.
Di seguito il Gala di danza [leggi la recensione].
Non è stato facile creare un equilibrio e alternare tutto. Non sono un grande fan dei gala, ma abbiamo avuto occasione di riproporre alcuni brani di Valzer &Co. con la presenza dell'orchestra.
Dopo l'inverno, ancora una stagione estiva in Arena, cominciata con la nuova coreografia di Aida[leggi la recensione].
È stata una scommessa e un'impresa delicata, difficile sentimentalmente, in quanto -per desiderio di Franco Zeffirelli- abbiamo creato una nuova coreografia sostituendo quella di un collega. La scena del rito potrebbe apparire molto statica, con queste sacerdotesse quasi possedute in preda a un esorcismo. Anche i momenti del coro, con la grande potenza dell'insieme.
Anche lo scambio cromatico.
Sì, con la sacerdotessa, che indossava un costume molto vistoso pensato per Carla Fracci, rossa nel mezzo del bianco e grigio. Questa figura era presente anche nel finale con una presenza superiore a quella della schiava. Non dimenticherò mai il boato alla fine della scena della danza. Da veronese è stata una soddisfazione coreografare Aida. Magari un giorno farò anche la regia.
Il 25 luglio è stata la volta del Carmen gala Concert [leggi la recensione].
L'idea di proporre delle serate-concerto sono state giustissime. Molto bella l'idea di Gavazzeni di porre una scena scura, con una unità fra orchestra, coro e ballo. I ragazzi hanno anni di esperienza nelle danze spagnole, io ho portato una certa rigidità, specialmente in un finale quasi militare. In una Carmen tradizionale non potremmo fare questo per la presenza della scena, così era un balletto libero nelle parti frontali e laterali.
Ad agosto ancora un lavoro autonomo, non legato a un'opera, sempre al Teatro Romano, con il Gala di Mezza estate [leggi la recensione].
Sì, volevo portare qualcosa di mio, non solo all'interno di un'opera. È stata una sfida e la prima mezz'ora di pioggia ci ha spaventati. Ma siamo stati felicissimi della grande presenza di pubblico.
Non si vede spesso a Verona questo tipo di spettacolo, che io ho visto come risultato di due anni di lavoro. È stata una notte magica, con uno straordinario lavoro dei ragazzi, inserito fra le opere.
Ha avuto un suo merito anche l'estate teatrale e speriamo di collaborare ancora con loro. In questo teatro ballai un tango di Piazzola alla fine degli anni '80. Penso si possa fare di più, aprendosi anche ad altri coreografi ed esportare il nostro repertorio.
La prossima stagione?
Avremo Cavallari, che è un coreografo più introverso di me e proporrà un lavoro molto più intimo. Io sono più semplice e Cavallari è più fisico, strutturato. Riprenderemo le fiabe a maggio, con la ripresa dell'Uccello di fuoco il Bacio della fata, dedicato a un Mentore o a chi è capace di lanciare la nostra carriera. Qualcosa di dedicato a tutti noi, perché c'è sempre qualcuno che ci ha aiutato e ci aiuta. Finiremo con una cosa un po' provocatoria, la mia ultima produzione da direttore del corpo di ballo a Vienna, vista come vita nel teatro. Il mago di Petruška è l'impresario, lei è la danza, il moro è l'opera e la ballerina è il successo. Alla fine Petruška non è vittima e sceglie la libertà: abbandona il teatro, come fosse una marionetta senza voler essere corrotto o manipolato. Dal quel momento ho cominciato il mio periodo da libero professionista. Riusciamo a fare grazie a Mentori e Mecenati, ma ho voluto raccontare una storia d'amore, una storia sulla carriera e una storia sulla libertà. Stravinskij è sempre una grande sfida: in Petruška ci sono delle donne che lanciano dei tulle, leggerissimi. Cadendo rappresentano il tempo della nostra carriera nella storia dell'arte, la caduta di questo lieve oggetto è la storia di Petruška. Voleva essere una rappresentazione della danza. Noi tutti viviamo con delle musiche nella testa, mentre la danza è una forma d'arte che piace o non piace. Non amarla è un peccato, ma, in fondo è una lingua. Per noi è importante avere tempo, tutto deve avvenire “ieri”, ma deve pulsare, vivere provocare.