La civiltà del Belcanto
di Gina Guandalini
“Ovunque mi giri sento che dappertutto un tessuto di confusione copre le voci. Voglio districarlo. Garcia affronta questo problema nei suoi trattati e io voglio parlarne”. È questa la dichiarazione d’intenti del sito che Rockwell Blake gestisce da diversi anni, nella convinzione che Manuel Garcia junior possa essere la guida e il toccasana dei cantanti del terzo millennio. E, nonostante questi preziosi testi blakeiani siano in inglese, è da sperare che tutti i cantanti e aspiranti tali del nostro paese trovino il tempo di leggere le sue meditazioni periodiche e di assorbirle. Ma Rocky vuole andare direttamente alla fonte: “Sono impegnato a costruire una piattaforma su cui si possa costruire una Scuola Garcia. Sto preparando una traduzione inglese dei testi di Garcia”
Di Rocky ho l’onore di essere amica dal 1988, da un Mosè in Egitto all’Opera di Roma che è rimasto memorabile; come ascoltatrice lo conoscevo dai tempi del Flaminio di Pergolesi al San Carlo di Napoli, nell’aprile ’85. E arrivavo buona ultima: tra Pesaro e Jesi il fenomeno Blake aveva già avuto modo di farsi ascoltare, discutere e ammirare. Recentemente ci siamo incontrati a Torino. Nella più raffinata delle città italiane questo artista sembra essersi inserito molto bene, tanto che ritornerà nel marzo prossimo – e in seguito, si spera, con regolare periodicità – per insegnare canto e interpretazione nell’ambito dell’Accademia della Voce di Armando Caruso. E nel corso di una cena preziosa, davanti a porcini fritti e formaggi e vino locali, la nostra conversazione scorreva come un torrente.
“Lo dico sempre: il momento decisivo della mia carriera è avvenuto quando sono stato scoperto da Renata Carisio Booth, che ha “sistemato” la mia voce e mi ha instradato nella direzione giusta”. Soprannominata “Red” per il colore dei capelli, la signora Carisio Booth possedeva, oltre al know how della tecnica vocale, una personalità vulcanica e una grande capacità di empatia con gli studenti ed è rimasta la più fida consigliera vocale di Blake.
Nato a Plattsburgh, in piena Clinton County, vicino al confine canadese, da una famiglia di allevatori di visoni, Rocky ha studiato al SUNY College di Fredonia , New York , e poi all’Universitò cattolica di Washington. Giunta la chiamata alle armi, “ho fatto il servizio militare nella banda della Marina. Forse in Vietnam non sarei sopravvissuto”, dichiara Rocky conciso. Suonava e cantava: nell’ultimo anno anche a solo per tenore. A Washington è stato notato da una coppia che era nel pieno di una carriera intelligente e variata: il soprano Evelyn Lear (nipote di un Cantor russo e specializzata in Berg e Schoenberg) ) e il suo consorte, il baritono Thomas Stewart (texano noto per le sue interpretazioni wagneriane). Sono poi venute tournée tutt’altro che amatoriali, in cui Rocky si è fatto le ossa in molti ruoli minori e si è specializzato nel ruolo di Almaviva nel Barbiere; un progresso coronato dal debutto all’Opera di Washington nell’Italiana in Algeri – come Lindoro, ovviamente, già nel ’76. È diventato così il primo vincitore del premio istituito dalla Richard Tucker Music Foundation.
Che quel giovanotto fosse una macchina per riflettere e meditare lo dice questa dichiarazione:
''La tecnica è la capacità di muovere la voce e renderla flessibile, per farle fare quello che vuoi. Secondo me è essenziale lavorare sulla tecnica prima di tutto. Ti permette di tirare fuori le note, di fare quello che richiede il compositore e interpretare la musica usando la tua personalità. Poi viene il volume. Non puoi andare in teatroni come il Met, con orchestra che usa corde metalliche, e non preoccuparti del volume. Resta il colore; ma se lo cambi chiedi alla tua voce qualcosa di innaturale, e sprechi energia. Un suono scuro richiede pressione sulla laringe e non corre come un suono chiaro. Più si cerca il suono scuro, più si limita la tecnica. Io ho quasi sempre lavorato su tecnica e volume, ignorando il colore. Ho puntato a produrre volume dove è richiesto, senza limitare la mia abilità di eseguire la musica. Voglio poter fare tutte le scale e intervalli e agilità rimanendo in grado di sormontare l’orchestra”.
Quando ha deciso Blake che la sua personalità era adatta soprattutto a Haendel, Mozart, Rossini e compagnia?
“Quando ho cominciato a guadagnarmi da vivere cantando, proprio non sapevo che cosa era più adatto alla mia voce e alla mia personalità. È stata più che altro un’esplorazione del repertorio a convincermi a dedicare la mia voce a musiche che rappresentavano una sfida tecnica come quelle di Rossini. Al culmine della carriera ho pensato che focalizzarmi su qualche cantante del passato simile a me per stile e repertorio mi sarebbe servito da guida per scegliere i ruoli. Se si ammette che un tenore possa essere logico, questa è stata la mia logica: vedere che cosa cantavano Garcia senior, David e Nourrit. Io ho fatto così, ma non va necessariamente bene a tutti. Agli allievi suggerisco di essere curiosi nei confronti della storia e di esplorare i loro doni innati”. E aggiunge “Credo che la mia vita non sarebbe stata completa senza mia moglie Debbie. Lei ha dei doni dove io ho debolezze. Le sue doti e la sua forza di carattere mi sono state di aiuto in tanti modi che nessun outsider potrà mai sapere."
A inserire stabilmente Rocky tra i protagonisti della rinascita rossiniana ha provveduto, nel settembre ’79, la prima messa in scena del Comte Ory su suolo statunitense; l’edizione è stata allestita alla New York City Opera. Tra gli spettatori c’era Marilyn Horne, sempre alla ricerca di colleghi validi nella sua titanica impresa di resuscitare il Rossini più entusiasmante; che in quell’occasione ebbe conferma del valore dell’interprete del personaggio del precettore, Samuel Ramey, e lo associò definitivamente alla propria carriera; e non mancò di notare la presenza ormai indiscutibile di Rockwell Blake.
“Fondamentalmente mi sono trasferito in Europa, principalmente una questione di repertorio”, osserva. “Negli Stati Uniti c’erano occasionali riprese di Rossini o di rarità di Bellini, Donizetti o Meyerbeer, ma in Europa quegli operisti stavano diventando il pane quotidiano. E anche la critica c’entra per qualche cosa. A New York venivo frequentemente stroncato; in realtà il pubblico era fantastico, ovazioni, urla eccetera. E quindi ho portato le mie tende altrove”.
La narrazione si sposta a Rossini e al repertorio che lo ha reso un cantante storico.
“A Pesaro mi ha portato Claudio Scimone nel 1983: lo considero una delle grandi tappe della mia carriera. Al Rossini Opera Festival mi hanno consentito di fare praticamente tutte le opere che volevo del repertorio rossiniano, e che non avrei mai creduto di poter cantare. Non mi hanno chiesto Il viaggio a Reims - non so perché e non ho mai investigato. Ma penso che il cast definitivo dell’84 fosse ben scelto per quell’epoca”
Vale la pena di ricordare con precisione quel proficuo, strepitoso rapporto. Blake al Rossini Opera Festival ha debuttato nel settembre 1983 con Mosè in Egitto; vi è tornato a interpretare Le comte Ory nel sett 84, una ripresa del Mosè nel sett ‘85, l’Ermione con la Caballè, la Horne e Merritt nell’ agosto / settembre ’87, Rodrigo nell’Otello nell’agosto ’88. In seguito sono venute le cantate per i Borboni: Il pianto d'Armonia sulla morte di Orfeo e la Cantata in onore di Francesco I d’Austria nell’agosto ‘91 e Le Nozze di Teti e di Peleo dieci anni dopo. Tra le due occasioni borboniche ci sono state serate elettrizzanti con Semiramide nell’agosto ‘94 e L’occasione fa il ladro nell’agosto 96. E dal 2009 Blake figura nell’Honorary Board, nel Comitato d’Onore del ROF (insieme a due illustri scomparsi come Abbado a Ronconi, la crème del canto americano – Horne Ramey Anderson – e altri due tenori, Juan Diego Florez e Chris Merritt ). Gli chiedo se da parte di Merritt gli siano mai stati chiesti consigli tecnici.
“Tutti si immaginavano che io e Chris fossimo in guerra. Ma la competizione di cui alcuni erano sicuri non è mai esistita. Chris non mi ha mai rivolto domande di argomento tecnico; non credo che mi abbia mai fatto domande in generale. Non siamo mai diventati quello che io chiamo amici (Oggi uno collegato su Facebook viene chiamato amico, ma io la penso diversamente). Nelle produzioni in cui comparivano insieme ci siamo divertiti; abbiamo fatto del nostro meglio per renderle un successo e credo che lo siano state tutte quante. Di quei successi io e Chris abbiamo condiviso la responsabilità; lascio che siano i partigiani ad elaborare chi di noi ha avuto più successo in ciascuna di quelle serate. Io ero felice di sentire gli applausi quando calava il sipario”.
Quando gli domando quali sono state, secondo lui, le tappe più emozionanti della sua carriera, risponde:
“Le serate che ricordo come le più entusiasmanti sono tutte le recite dell’Occasione fa il ladro a Losanna, la serata di apertura della Donna del lago alla Scala, in cui non mi sono sentito amato dal pubblico come non mai.” (ma ha avuto subito l’intelligenza di intuire che quella sarebbe stata la sua prima e ultima presenza scaligera, la direzione artistica essendo convinta che di Divi ne bastava uno…) “Poi devo elencare ogni recita del Barbiere di Siviglia a Roma nel 1992; erano con la regia di Carlo Verdone, al Teatro Costanzi e alle terme di Caracalla nella ripresa estiva. La messa in scena di Verdone presentava più opportunità di ridere di qualunque altra. È stata anche l’unica volta che un regista mi ha chiesto di fare un bis di un’aria. La direttiva dall’alto è quasi sempre che i bis non sono permessi!”
Interrogato su quando ha iniziato a inserire il famoso rondò "Cessa di più resistere" alla fine del Barbiere di Siviglia, Rocky puntualizza:
"Ho inserito il rondò finale di Alamaviva in una produziome di Houston (Texas) nel '76. Ero nel secondo cast, il tenore del primo cast non lo cantava, e il suo direttore avrebbe voluto tagliarlo anche a me, ma io avevo un altro direttore e l'amministrazione del teatro ha insistito a metterlo nel mio contratto. Mi pare di averlo cantato in inglese. L'anno seguente, nel '77, ero al Summer Festival di Ottawa e ho cantato il Barbiere in italiano, con tutte le note del ruolo!"
Rifletto che Blake custodisce in cuore Rossini e un periodo ben preciso, il biennio ’90-’92. Ogni ammiratore avrà caro qualche altro autore e qualche altro periodo della sua lunga carriera: chi scrive mitizza I Puritani di Napoli già citati, nella versione rielaborata per la Malibran che il San Carlo offrì nel 1988 (uno statunitense che si è soprannominato coloraturafan li sta postando a pezzi su Youtube, e veramente si può capire che sono stati riscritti anche per Rockwell Blake!). E ricordo il sensualissimo Jupiter della Semele di Haendel (Fenice 1991), l’Idomeneo a Barcellona nel ’95, Orphée et Eurydice di Bordeaux (1997), Marin Faliero al Regio di Parma (2002), Les Huguenots di Metz (2004). Pensando al Crociato in Egitto, Robert le Diable e quei diabolici Huguenots vorrei sapere da Rocky se la vocalità e la linea musicale meyerbeeriana possono definirsi para- o filo-rossiniane. La risposta è maliziosa:
“Meyerbeer era una gazza ladra, e Rossini era un ricco cofanetto luccicante di splendidi gioielli musicali e vocali. Concludi tu!”
Il discorso non può prescindere dal Rockwell Blake di oggi, docente di altissimo livello nella sua nativa Plattsburgh e ora anche, si spera con continuità, a Torino, e alla sua impresa di diffondere il metodo Garcia.
“Garcia l’ho conosciuto agli inizi di carriera, ma mi ci è voluto molto tempo per assorbire i suoi scritti. In realtà è stato solo verso la fine del mio percorso teatrale che ho compreso quanto i giovani cantanti intorno a me avessero bisogno di conoscerlo. La mia insegnante era così ben collegata con le vecchie tradizioni e così brava a introdurle con la forza nel mio canto che quando ho cominciato a capire veramente Garcia mi sono reso conto di come Renata [Carisio Booth] aveva preparato bene la mia voce e il mio modo di cantare. I principi che ho appreso non erano attribuiti direttamente a lui, ma i suoi scritti descrivono tutto quello che io facevo con la voce – perfino alcune brutte abitudini che avevo preso durante la carriera”.
Non posso fare a meno di esprimere a Rocky il mio senso di sconforto per la situazione vocale di questi anni e in particolare della corda tenorile. Ed ecco il suo parere:
“Il problema è del canto: in tutte le corde. Tutte le arti sono in crisi, molti non se ne accorgono, credono che sia un fatto ciclico. Per me è il sintomo di una realtà più profonda, pandemica; i valori che sono cari a noi della vecchia guardia stanno diventando antiquati. Nel mondo stanno arrivando grossi cambiamenti e sono le arti a soffrirne gli effetti”.
Da americano pragmatico ha qualcosa da dire anche sull’insegnamento:
“Il sistema universitario che prepara i cantanti per la scena compromette la qualità dei prodotti per mantenerne un numero alto nel corpo studentesco”.
Segnalo che in Italia non esiste maniera di prepararsi al teatro d’opera all’università.
“Lo stesso compromesso lo fanno gli insegnanti privati, per assicurarsi la continuità del reddito. Nell’economia dell’insegnamento è difficile entrare in rapporto con un buon maestro; e questa stessa economia non motiva ad essere buoni maestri. Infine la gestione economica delle Università crea ambienti che hanno scarsa tolleranza per l’eccellenza. Bellissima definizione per la crisi del botteghino, no?”
L’ascolto dei dischi dei primi quarant’anni di registrazione potrebbe aiutare ad arginare la crisi?
“Sono un documento preziosissimo della differenza tra il cantanti di oggi e le generazioni passate su cui si basavano gli anni d’oro del canto. E’ necessario far resuscitare le scuole di canto che hanno prodotto le grandi voci del passato. I documenti, tutte le vecchie registrazioni di che cosa era possibile fare dovrebbero essere una testimonianza sufficiente ad ispirare ogni amante dell’opera a desiderare che i vecchi stili vengano ristabiliti”.
Sembra facile…