L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Nota al testo

Chiara Lagani

Per la versione italiana del testo si è voluto tener conto delle temperature e del colore linguistico impresso da Ingmar Bergman al suo film Trollflöten girato in svedese nel 1974, che l’allestimento di questo nostro Flauto magico omaggia. La chiave del Flauto bergmaniano, dichiara il regista, è l’amore, “la cosa più importante tra gli esseri umani. E la più importante del mondo. Per sottolineare questo aspetto ho dovuto renderlo esplicito: è una delle rare modifiche che ho impresso al libretto originale”. Si è voluto così porre l’accento, accogliendo la libera traduzione bergmaniana del testo originale – almeno in certe sue parti – su questo principio ispiratore sostanziale, che viene qui portato avanti nella sua complessità dai personaggi principali, trovando espressione piena nelle parole di Sarastro (Amore come culmine della saggezza e della bellezza dell’arte) e nella metamorfosi dei due innamorati che attraversano l’orrore del regno notturno, suonando il loro flauto a occhi chiusi, fino alla luce. La via d’accesso di questo nostro Flauto, come già accadeva nel Flauto di Bergman è lo sguardo di due bambini: il teatro, con tutti i suoi alchemici incantamenti, l’opera stessa, e noi spettatori, tutto e tutti ne siamo avvolti e forse da esso generati. Si vedranno qui introdotte, pertanto, alcune aggiuntive figure di fanciullo – oltre a quelle dei tre geni, indicatori della giusta via, previste dal libretto originale. Troverete due bambini iniziali e fondativi, Fanny e Alexander (che nell’Ouverture immediatamente vi accolgono), e molti altri bambini, loro emissari e complici, che popolano la scena di volta in volta in veste di schiavo, di sacerdote, compagno di viaggio e di avventura dei personaggi di questa favola. Nella versione italiana del libretto li troverete indicati come “bambini”, oppure “Schiavi/bambini” o “Sacerdoti/bambini”. Essi producono spostamenti di senso e di asse, ricordandoci che quel che accade è forse solo il loro sogno, e noi ne siamo parte. “Mi sposto con la velocità dei secondi [...] Abito sempre nel mio sogno e di tanto in tanto faccio ritorno nella vita reale” diceva Bergman di sé. Affermazione tutta mozartiana, in fondo, e peraltro somigliante a quella iniziale di Tamino, scampato al terribile drago: “Dove sono? È un sogno o la realtà?”.

I personaggi di questo gioco di marionette viventi sono figure semplici ed emblematiche, a due dimensioni. Amano e odiano di colpo; qui i cattivi sprofondano, i buoni trionfano, la principessa è prigioniera, il principe è bello e coraggioso. Eppure la grazia estrema della loro incarnazione in musica conferisce loro una profondità inaspettata, quella purezza tipica di ciò che è  vivo e umano. E così nel teatrino delle marionette viventi, mondo infantile e mondo adulto convivono, nella complicazione delle passioni umane. Pamina allora è la dolce fanciulla, ma è anche colei che attraversa il fuoco e la morte; Sarastro non è figura rigida: la sua statura è ieratica, ma contempla la dolcezza amorosa del padre e il gioco col mondo dei bambini, primi soggetti della sua comunità; la perfida Regina è in primis una donna, quel che leggiamo in lei è un dolore esacerbato e cupo, l’algida violenza, ma anche la seducente sensualità; Monostato è di una nerezza tutta psichica, come il suo amore e la sua anima, che fan tremare Pamina; perfino Papagena, foriera della vita e della primavera, ha un’epifania arcana, misteriosa ed enigmatica: volto di vecchia, corpo di fanciulla, scortata da bambini. Sarà molto evidente nella resa linguistica dell’italiano la coloritura impressa alle figure, con esiti talvolta liberi, alla ricerca di un senso di complessità che muove la radice doppia di ogni personaggio. Bergman non esita a scaldare la temperatura degli aggettivi, a neutralizzare la retorica di certe formule trovando un ritmo e un’armonia speciale all’incanto del suo sogno.

Si è scelto di affiancare nel libretto la versione tedesca classica, corredata delle didascalie originali, con quella più libera – e di matrice bergmaniana – affidando allo spettatore il gioco di comparazione e specularità dei sensi paralleli.

Ultima notazione: il coro-comunità di Sarastro, in questa edizione del Flauto è il popolo del personale del teatro, le maschere: i suoi interventi provengono dalla sala, dal palco, dal teatro tutto. Sarastro è circondato dai bambini, dalle maschere del teatro (sacerdoti, schiavi e seguito) e dalla comunità degli spettatori, che sono anch’essi in fondo attori, più o meno consapevoli, di una storia tutta rivolta alla magia dell’arte e della musica e alla potenza dell’amore. All’amore e alla bellezza dell’arte si impronta anche la resa di alcuni tra i passi più commoventi del libretto, come il famoso duetto tra Papageno e Pamina, di colore quasi lucreziano, e l’imponente chiusa del coro in cui bellezza e sapienza son totalmente e finalmente fusi con l’immagine d’Amore (“L’amore ha vinto, e incorona bellezza e saggezza”).


 

 

 
 
 

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