L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Carmen a Firenze, maggio musicale fiorentino

Dal libretto di sala un testo di Leo Muscato:

ESTREMIZZARE IL CONCETTO PER CAPIRLO MEGLIO

APPUNTI PER UNA MESSA IN SCENA

di Leo Muscato

Quando inizio a studiare per una messa in scena, la cosa più difficile è fare tabula rasa di tutto ciò che credo di sapere di quell’opera, specie se si tratta di classici rappresentati milioni di volte. Ricominciare da zero e provare a immaginare in che modo quella storia può essere utile al pubblico a cui ci rivolgiamo. Fare i conti con ciò che lo

spettatore sa, conosce, si aspetta. Di solito accetto la commissione solo se trovo la chiave per poter raccontare quella storia da una prospettiva diversa, dire qualcosa di nuovo. E non si tratta di sovrapporre una drammaturgia differente da quella già esistente, ma di tenere conto del tempo che è passato e delle avvenute mutazioni. Spesso occorre operare dei tradimenti.

Questa versione di Carmen ne contempla almeno tre. Il primo riguarda l’epoca. L’opera di Bizet debutta nel 1875, ed è ambienta in un passato più o meno recente che molti spettatori seduti in sala avevano vissuto direttamente.

Abbiamo deciso di raccontare questa Carmen conservando una distanza temporale simile, e l’abbiamo contestualizzata alla fine degli anni Settanta. Il secondo tradimento riguarda l’ambientazione. Allo spettatore di oggi, Siviglia non potrà mai apparire come la città

esotica che potevano immaginarsi gli spettatori di Bizet. Carmen è una zingara, e nel nostro progetto, Siviglia diventa il nome del Campo nomadi in cui vive Carmen. Lei e quelli della sua comunità sono stati confinati lì dalle forze dell’ordine dopo uno sgombero

violento. Sono stati ghettizzati all’interno di un recinto con filo spinato e controllati a vista.

La vita nel campo non è facile, lo si intuisce dalle condizioni precarie delle roulotte in cui vivono. Le esalazioni della Matador (una fabbrica di sigarette lì vicino), intossicano tutta l’area.

In quella fabbrica ci lavora anche Carmen, la zingara. Le sue colleghe la evitano e la trattano come una reietta. Solo i militari che presidiano il campo le riservano attenzioni; ma sono attenzioni fasulle, perché quelli sbavano davanti a qualunque creatura di sesso femminile passi sotto il loro naso. L’unico a ignorarla è un brigadiere timido e scorbutico, che evita il suo sguardo. Carmen sa perché, l’ha riconosciuto. È quello che durante lo sgombero picchiava più degli altri. È quello che quando l’ha catturata le ha quasi rotto un polso. Si chiama José. È un ragazzo inquieto; fatica a tenere sotto controllo il suo temperamento eccessivamente impulsivo che ogni tanto gli procura un cortocircuito nella testa. È entrato nell’esercito perché sa di aver bisogno di regole e per questo si sforza di osservarle. Ma a un certo punto finisce per mettersi in un guaio grosso; e questa volta di mezzo c’è proprio quella zingara del campo. Altro personaggio cruciale di questa storia è Escamillo, il toreador gitano. È un uomo dall’animo gentile ed elegante. È cresciuto anche lui in un campo, e quando può va a fare visita ai molti accampamenti che incontra sulla strada. Quando arriva al Siviglia, il tripudio e l’eccitazione di grandi e bambini arriva alle stelle: firma autografi, regala foto, racconta aneddoti, li fa sognare, divertire. Qui conosce Carmen e se ne innamora.

Forse anche lei. Ma è una storia che non può avere un seguito, perché Carmen ormai sta con José, che ha disertato ed è stato accettato dalla comunità.

A un certo punto, in questa comunità appaiono due tipi molto loschi, probabilmente zingari anche loro. Uno dei due incute terrore e si muove come fosse il padrone del campo. Li costringe a partecipare a un furto alla Matador, dove lavora Carmen. Fra i due c’è qualcosa

lasciato in sospeso, e non promette niente di buono. Il terzo tradimento è un sogno sovversivo. Il moto di ribellione trova le sue radici nelle prime due righe della novella di Prospere Mérimée. Si tratta di una epigrafe di Pallada, un poeta greco del V secolo. Recita così:

“La donna è fiele; ma ha due ore buone.

Una nel letto, l’altra nella morte.”

In greco vi è un gioco di parole intraducibile che accoppia letto e morte.

Milletrecento anni dopo Mérimée sente la necessità di sintetizzare così il carattere di un personaggio da lui stesso inventato, una donna disposta a morire piuttosto che rinunciare alla sua libertà.

Peccato perché, verso la fine, lo stesso Mérimée aveva dato a Carmen una frase molto più incisiva:

“…mi chiedi l’impossibile. Io non ti amo più, tu mi ami ancora, ed è per questo che vuoi uccidermi.”

Il moto sovversivo impone queste due ultime frasi come epigrafe.

Magari invertendone l’ordine

foto Pietro Paolini Terra Project Contrasto

 


 

 

 
 
 

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