L’Ape musicale

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A colloquio con Hugo de Ana

A cura di Fabio Zannoni

Con quali idee e prospettive si è avvicinato al progetto di un’opera come Tosca per il palcoscenico dell’Arena di Verona?

Mi è piaciuta molto l’idea di fare Tosca in Arena perché per me rappresentava sicuramente una sfida. L’Arena, infatti, può essere uno spazio molto difficile, anche dispersivo, per un’opera che io considero intimista. Un’opera dove, prima di tutto, è importante capire la psicologia dei personaggi, per cogliere in maniera profonda le loro intenzioni drammatiche. Per fare questo ho voluto puntare su una teatralità di tipo cinematografico perché credo che, nel libretto di Illica, i modi in cui si sviluppa l’azione abbiano tutte le caratteristiche di una forma cinematografica. Come in un thriller, una sorta di noir, con un cocktail di politica, religione ma soprattutto di passione; passioni che, dall’inizio alla fine, agitano tutti i personaggi, in tutte le direzioni, non solo nel senso dell’amore e della gelosia. Lo stesso Mario Cavaradossi ad esempio è più innamorato della sua opera, della sua arte, che di Tosca stessa perché lui come tutti gli artisti è un po’ egoista.

Dimensione spettacolare o più intimista. Quale il carattere che fa emergere in maniera più evidente?

Lo spettacolo grandioso, che gli spettatori dell’Arena si aspettano, deve cercare di non far smarrire il carattere intimo di quest’opera, che è soprattutto un’opera di personaggi.

Ci parli dei tre protagonisti.

Spicca con forza Scarpia, che è il fulcro di tutta l’opera. Responsabile della polizia di Roma, molto potente e molto megalomane: è un personaggio che io amo molto perché assume i connotati di un essere assolutamente umano, di un uomo che quando arriva al potere finisce per essere distruttore non solo degli altri ma anche di sé stesso.

Così Tosca è la diva di Roma in quel momento, è un personaggio ambiguo in cui convivono religiosità e trasgressione. Un’ambiguità evidente nel suo rapporto con Scarpia: lei in fondo è attratta dal potere di quest’uomo, non vuole sfidarlo, cade semplicemente nella sua trappola. Ma Tosca è un’attrice, e qui Puccini ha avuto una grandissima intuizione, nel fare di lei un’attrice nella vita ma anche nell’opera: lei recita sulla scena anche parti che non le appartengono. Quando nella scena della fucilazione afferma: “Com’è bello il mio Mario. Là! Muori, ecco l’artista”: è una citazione da diva del teatro; così lei recita, comincia a fare la civetta, quando intona “Non la sospiri la nostra casetta”. Traspare qui il mondo delle grandi dive, del teatro e dell’opera dell’epoca di Puccini, che sapevano portare il loro personaggio anche fuori del palcoscenico.

Emergono così caratteri complessi e in tal senso la versione di Illica è molto ben scritta e ben curata nella psicologia dei personaggi.

Per me nella complessa relazione tra Tosca e Scarpia c’è una forte componente sadomasochistica, in un rapporto di amore-odio: vittima e carnefice si uniscono in una specie di grande amplesso, i cui ingredienti sono sangue, amore e morte, fino al punto che Tosca, colpendolo col pugnale, grida “Questo è il bacio di Tosca!”, e poi ancora, “Ti soffoca il sangue!”.

La figura di Mario Cavaradossi è quella di un figlio dell’Illuminismo; non è tanto un idealista, egli è imbevuto dello spirito rivoluzionario, che ha respirato direttamente dall’ambiente parigino in cui era cresciuto. Si era quindi messo a dipingere per essere accettato a Roma, per non essere malvisto dalla Corte borbonica. Nello stesso tempo sa guardare più lucidamente la realtà: mentre Tosca crede che riuscirà a liberarlo, egli non è mai convinto che non sarà ucciso e che si salverà; nel suo canto c’è sempre un fondo di amarezza, di negatività.

Qual è la Roma in cui si muovono i personaggi? Quali le scelte scenografiche?

Ho cercato il più possibile di puntare su un’atmosfera simbolica, più astratta, cercando di tirare fuori il gioco delle intenzioni psicologiche dei personaggi. Anche per l’ambientazione scenografica sono partito da un’idea simbolica, con frammenti di Castel Sant’Angelo: questa grande testa della statua dell’Angelo, con un braccio spezzato e la spada alzata, che in qualche maniera ci unisce dall’inizio alla fine dello spettacolo. Assieme a questa immagine, che farà da filo conduttore, ci saranno, nelle parti laterali, trincee con cannoni, a simbolizzare la situazione di una guerra sempre presente, di una città costantemente in guerra.

Sarà quindi una narrazione realistica?

La rappresentazione non può per me essere realistica. Il momento del Te Deum ad esempio, non è tanto un’immagine di fasto e di potenza reale (non si poteva certo preparare tutto in due minuti!), è piuttosto una specie di allucinazione, una grande visione di Scarpia in quel momento del suo grande potere.

Quale quindi il ruolo della religione nella vicenda?

La religione qui fa come da sfondo alle vicende dei nostri protagonisti: Tosca non è Don Carlo, neanche Aida, dove le figure dei sacerdoti avevano un peso. Puccini non aveva lo stesso concetto della religione che aveva Verdi. Ma non penso che lui abbia voluto dare un’interpretazione particolare della Controriforma, della Chiesa, del Vaticano, nemmeno di dare un’immagine negativa della religione stessa: sta semplicemente sullo sfondo della Storia.

Per quanto riguarda l’ambientazione storica?

Tosca è anche un’opera indissolubilmente legata alla sua epoca storica, che per me non ammette trasposizioni. La storia è qui molto presente, con gli echi della battaglia di Marengo: il fatto storico, vero, con una data precisa, che viene anche annunciato, che fa da sfondo alla situazione drammatica.

I costumi sono quindi assolutamente del periodo, anzi qualcuno è una vera e propria copia di costumi napoleonici. Sono decisamente tradizionali.

Nonostante la scelta di una narrazione in chiave simbolica non c’è spazio quindi per trasposizioni, anche allusive, ad altri luoghi o altre epoche che non siano quelli del libretto?

Ripeto: Tosca è un’opera troppo legata al periodo ed è molto difficile trasferirla in altro luogo o altro spazio. Non me la sentirei quindi di far indossare ai soldati dei costumi nazisti com’è di moda oggi, perché l’atmosfera che voglio far respirare e di questo Ottocento in guerra. C’è sì chi ha realizzato, a New York, un Rigoletto con un’ambientazione mafiosa: era molto bello, funzionava, ma era per un altro tipo di pubblico che si aspettava una proposta sperimentale.

Non è che il pubblico dell’Arena voglia sempre e assolutamente la tradizione ma vuole essere come tranquillizzato, nel momento in cui inizia lo spettacolo. Penso che anche qui si possa gradualmente portare una concezione più moderna dello spettacolo, senza allontanarsi troppo da ciò che rassicura lo spettatore.


 

 

 
 
 

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