L’Ape musicale

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APPROFONDIMENTI

L’opera in breve
Giuseppe Martini
Dopo l’ottima accoglienza del Pirata nel 1827 e della Straniera nel 1829, dopo l’apertura della Stagione di Carnevale 1831 con la ripresa di I Capuleti e in Montecchi e con La sonnambula ormai pronta per il marzo 1831, l’impresario del Teatro alla Scala di Milano Giuseppe Crivelli aveva provveduto ad assicurarsi un titolo nuovo di Vincenzo Bellini per l’inizio della Stagione di Carnevale 1832, nella quale era previsto un quartetto di interpreti di primo piano: i soprani Giulia Grisi e Giuditta Pasta, il tenore Domenico Donzelli e il basso Vincenzo Negrini. La partitura fu compiuta fra settembre e novembre ma molti pezzi ritoccati durante le prove, fra cui “Casta diva” che la Pasta giudicava troppo acuta per sé (e Bellini la abbassò di un tono).
Il debutto avvenne il 26 dicembre 1831 con una pessima accoglienza del pubblico che lasciò Bellini sconfortato ma non sorpreso: se ufficialmente attribuì le cause alla stanchezza del cast dopo un mese di prove e alla novità dell’impianto drammaturgico, dentro di sé era convinto che a remargli contro fosse stata una fronda di sodali di Giovanni Pacini, che considerava il suo più accanito rivale. L’esito andò però migliorando dopo la prima replica, e alla fine rimase in scena per altre ventidue serate. Da lì in poi fu allestita in tutti i maggiori teatri europei anche grazie all’interpretazione di prime donne di grido come Maria Malibran, Giuditta Grisi, Jenny Lind, e non ha mai conosciuto momenti di oblìo fino alla “reinaissance” belcantista di metà Novecento, quando anche grazie al contributo di Maria Callas fu restituita a una più corretta interpretazione stilistica dopo gli abusi stilistici sul canto operistico prodotti dal gusto del periodo verista.
Con Norma l’opera italiana, profondamente legata ai modelli rossiniani, entrava definitivamente nella sensibilità romantica, e non solo per l’ambientazione della vicenda, ma soprattutto per la capacità di interpretare il presente nella sublimazione di un sentimento amoroso puro e assoluto, dotato di una insostituibile forza rigeneratrice, verso il quale la figura maschile si rende prima colpevole e poi è costretta al pentimento di fronte alla superiorità morale della figura femminile. Questa scelta comporta il potenziamento assoluto della centralità della protagonista, che lascia poco spazio agli altri interpreti e sgombra il campo da veri antagonisti, poiché il dramma è nei sentimenti che intercorrono fra i personaggi.
La grandezza di Bellini sta nell’esprimere quei sentimenti attraverso mezzi squisitamente musicali: articolazione strutturale (il duetto fra Norma e Adalgisa del primo atto, ad esempio, sfocia in un terzetto al calor bianco); finali innovativi (il secondo addirittura non ha un concertato né un’aria della prima donna); compenetrazione profonda d’invenzione melodica e colore orchestrale; abolizione delle regolarità metriche e delle simmetrie, che rendono le sue melodie inconfondibili e più percepibile il tramestio emotivo; varietà di mezzi vocali che, combinando il canto fiorito di matrice rossiniana a canto sillabico, declamato e arioso, consentivano una vasta gamma di sfumature espressive; capacità di individuare l’atmosfera della singola opera attraverso una perspicua fusione di armonie, melodie e timbri, una lezione di cui l’opera italiana avrebbe subito fatto preziosissimo tesoro.

Il libretto
Giuseppe Martini
Il libretto di Norma è rielaborato sulla vicenda dell’omonima tragedia in cinque atti di Alexandre Soumet andata in scena al Théâtre Royal de l’Odéon di Parigi nell’aprile del 1831. Felice Romani era solito attingere a drammi francesi (era anche una questione di affrancamento dai diritti d’autore) e il dramma di Soumet era andato in scena da pochissimo: dopo aver deciso di rivolgersi a questo testo, lo comunicò tempestivamente a Bellini e in luglio era già pronto lo schema del libretto. Romani vi fece rifluire elementi tratti da altri due suoi libretti, quello della MedeainCorinto scritto per Simon Mayr nel 1813 e quello di La sacerdotessa d’Irminsul per Giovanni Pacini del 1820, più qualche suggerimento dall’episodio della sacerdotessa Velleda in Les martyrs di Chateaubriand (niente a che vedere con il soggetto per il futuro grand opéra di Donizetti).
A differenza del dramma di Soumet, nel libretto sono eliminate tutte le situazioni fantastiche, introdotti momenti legati alla ritualità pagana gallica, ridotta la presenza dei bambini, potenziati i conflitti fra i personaggi e accentuato il ruolo di Adalgisa, poiché destinato a Giulia Grisi. Non è poi improbabile che, essendo il ruolo di Norma destinato a Giuditta Pasta che l’anno precedente al Carcano di Milano aveva cantato un’aria di pazzia nel finale di Anna Bolena di Donizetti, evidentemente ancora ben vivo nella memoria del pubblico milanese, Romani e Bellini abbiano per questo deciso di cambiare anche il finale di Soumet, in cui Norma alla fine impazzisce e uccide i figli per poi gettarsi da una rupe, optando invece per il classico motivo dell’unione degli amanti nella morte e della generosità d’animo di Norma che accusa se stessa scagionando Adalgisa, più coerente alla psicologia sentimentale della protagonista. Del resto sembra sia stato proprio Romani a insistere sulla volontà di concludere i due atti in modo non convenzionale, rifiutando la soluzione di affidare il primo finale a un coro di druidi e il secondo a un’aria di forza della protagonista.
Certamente alle stesure dei versi contribuì lo stesso Bellini, ma l’assenza di documenti in proposito (si trovavano entrambi a Milano) non permette di capire fino a che punto il compositore sia intervenuto. Alla luce degli abbozzi librettistici sopravvissuti, oltre a numerose intenzioni iniziali poi cambiate, pare ormai certo che sia stata eliminata l’idea di un’aria con pertichini di Norma all’esordio del secondo atto per sostituirla con un recitativo drammatico. Anche sui metri è probabile l’intervento di Bellini, tanto più che spesso concepiva la musica prima della realizzazione dei versi: a fianco dei consueti quinari e settenari, qui si trovano quinari doppi (Finale II), ottonari e decasillabi (cori “Guerra, guerra!” e aria “Tutti, ah, tutti tradisco i suoi voti”).
La censura intervenne sui versi del tempo di mezzo della cavatina di Norma ma, stranamente per quanto dopo lunghe riflessioni, non sulle parole “aquile nemiche” nell’aria iniziale di Oroveso, che avrebbero pericolosamente potuto essere interpretate come allusioni all’Austria.
I nodi drammaturgici riprendevano idee già impresse nell’immaginario teatrale del pubblico (la figura della sacerdotessa che infrange i voti per amore era stata resa popolare dalla Vestale di Spontini e l’infanticidio come reazione al tradimento amoroso risale a Medea). L’opera attualizza perciò in chiave romantica elementi propri della tragedia classica spostando l’ambientazione nel mondo barbarico. Ne risulta uno fra i libretti italiani più lodati dell’Ottocento, persino da Schopenauer e Wagner, giustificando così Romani che fra i suoi libretti lo considerava platealmente «La più bella rosa della ghirlanda».

Sinossi
Atto primo. Nella foresta sacra dei druidi, in Gallia, al tempo della dominazione romana, troneggia la quercia del dio Irminsul, ai piedi della quale si trova l’altare per i riti. Fra i boschi si vedono luci: sono le fiaccole dei Galli, che di notte vanno a chiedere alla loro divinità come comportarsi per scuotersi dal gioco romano (coro: “Ite sul colle”).
Il coro è formato anche dai druidi e dal loro gran sacerdote Oroveso, il quale ordina che al primo chiarore della luna si dovrà compiere il sacro rito della mietitura del vischio, che sarà compiuto dalla sacerdotessa Norma, sua figlia. Si avviano così nella foresta in attesa del momento. La scena si sgombra e arriva il proconsole romano Pollione, insieme all’amico Flavio. Pollione ha avuto segretamente due figli da Norma, violando così il voto di castità della sacerdotessa. Ma ora a Flavio confida di essere innamorato di Adalgisa, ingenua giovane sacerdotessa di Irminsul. Teme però incorrere nella reazione di Norma, timore confermato da un sogno in cui si vedeva con Adalgisa davanti all’altare di Venere a Roma e Norma appariva come un fulmine scatenando la sua vendetta (cavatina “Meco all’altar di Venere”).
Si sente però echeggiare il rumore dell’arrivo dei Galli. Pollione congeda Flavio e si apparta lanciando invettive contro di loro. Arriva il corteo. Poi ecco Norma (coro “Norma viene”), che ammonisce i Galli che l’ora della rivolta non le è ancora stata decretata dagli dèi, frena le loro intenzioni di colpire il proconsole e intona una preghiera alla luna (cavatina “Casta diva, che inargenti”), al termine della quale congeda l’assemblea, che si disperde invocando il giorno della vendetta.
Rimane solo Adalgisa, subito avvicinata da Pollione che la stringe in un serpentino corteggiamento spingendola ad abbandonare il sacerdozio in nome di Amore, e a seguirlo a Roma (duetto “Va, crudele, al Dio spietato”). Dopo non pochi tentennamenti, Adalgisa promette che l’indomani fuggirà con lui.
Nella propria abitazione Norma è intanto agitata da presentimenti foschi. Sa che Pollione è stato richiamato a Roma e chiede alla confidente Clotilde di nascondere i figli. Arriva intanto Adalgisa e confida a Norma il proprio amore, chiedendole di scioglierla dai voti sacerdotali. Norma si immedesima nella passione di Adalgisa quando questa le racconta la propria vicenda, senza far nome dell’amato (duetto “Sola, furtiva, al tempio”), e la libera dai voti, invitandola a vivere felicemente con il suo amore. In quel momento però entra proprio Pollione. Adalgisa lo indica come il suo innamorato. E la reazione di Norma non si fa attendere: mette in guardia Adalgisa di essersi innamorato di un fedifrago e gli rivela la propria storia con lui (terzetto “Ah, di qual sei tu vittima”). Adalgisa è sconvolta. Accusa Pollione di averla ingannata e si rifiuta di partire con lui. I druidi, intanto, richiamano Norma ai sacri riti. Pollione si allontana, in preda al furore, e Adalgisa dichiara a Norma di voler rinunciare a Pollione.
Atto secondo. Sempre nella dimora di Norma, decisa a vendicarsi di Pollione uccidendo i figli. Ma appena li vede dormienti, le manca il coraggio di pugnalarli. E cambia idea. Convoca Adalgisa e glieli affida (duetto “Deh, con te, con te li prendi”), pregandola di portarli all’accampamento romano, perché ha deciso di suicidarsi. Adalgisa non accetta. La convince anzi ad abbandonare quel proposito e le promette di intercedere in suo favore presso Pollione. Dopo qualche resistenza orgogliosa, Norma cede e abbraccia Adalgisa commossa. Nella foresta intanto Oroveso avverte i Galli che la partenza di Pollione non cambia il quadro della situazione, e che a lui si sostituirà un proconsole forse più feroce, per cui – visto che Norma non ha ancora ricevuto istruzioni dalla divinità – invita tutti a dissimulare il proprio stato d’animo e ad aspettare (sortita “Ah, del Tebro al giogo indegno”).
Nel tempio però Norma riceve da Clotilde notizie scoraggianti: Adalgisa non è riuscita a convincere Pollione, che pare intenzionato a rapirla sull’altare di Irminsul pur di portarla con sé. Norma reagisce con violenza. Percuote lo scudo sacro di Irminsul, chiama i guerrieri galli e annuncia che è arrivata l’ora della rivolta. Si leva il grido dei soldati (coro “Guerra, guerra!”). Norma non fa in tempo a rispondere alla richiesta di Oroveso circa il nome della vittima designata al sacrificio propiziatorio perché in quel momento viene annunciata la cattura di un romano sorpreso nel recinto delle vergini sacre alla divinità: è proprio Pollione. Norma vorrebbe dapprima ucciderlo. Poi, impietosita, non si attenda, allontana tutti con il pretesto di interrogare il prigioniero per scoprire l’identità della sacerdotessa complice e, rimasti soli, si confronta con lui. Prima gli impone di lasciare Adalgisa, altrimenti lo ucciderà (duetto “In mia man alfin tu sei”) e, al rifiuto di Pollione, minaccia di uccidere i figli e mandare al rogo Adalgisa. A quel punto Pollione addiviene a più miti consigli. Norma ordina perciò il rientro dei guerrieri e dei sacerdoti, annuncia di aver scoperto il nome della sacerdotessa colpevole ma, nella costernazione di tutti, accusa se stessa. Tutti la accusano e chiedono la punizione dei colpevoli. Norma ordina che venga preparato il rogo, prega il padre di prendersi cura dei figli (finale “Deh, non volerli vittime”) e, mentre Oroveso cede alla pietà, si avvia verso il supplizio piangendo, e piangendo purificandosi del proprio peccato. Solo ora Pollione si rende conto di aver amato e di amare ancora una donna straordinaria, e decide di seguirla sul rogo.

Note di regia
Nicola Berloffa
Questa produzione arriva finalmente in Italia dopo una tournée europea, si tratta non di una ripresa ma di un riadattamento dovuto alle regole sanitarie imposte dall’emergenza Covid. Lo spettacolo è stato pertanto ricostruito seguendo la regola del distanziamento. L’idea centrale resta, comunque, quella originale. Sullo sfondo di una guerra continua osserviamo i detriti di una società vinta e conquistata. Da un lato troviamo i Galli sconfitti che vivono reclusi in un palazzo ottocentesco incendiato e devastato, ultima vestigia di un potere perduto. Nessun druido con la barba, ma al posto loro vecchi generali e soldati attaccheranno con le poche forze restanti Norma cercando di estorcerle il segnale atto ad una agognata e penosa nuova Rivoluzione. In questo adattamento si è spostata l'azione del dramma verso un Ottocento europeo, nel periodo delle grandi lotte e delle rivoluzioni interne che hanno segnato il XIX secolo, ma sono state rispettate assolutamente le dinamiche conflittuali tra vincitori e vinti, i deliri amorosi e le gelosie uterine delle eroine belliniane. Potremmo trovarci a Solferino o a Parigi ai tempi della guerra prussiana. Vedremo cadere Norma, da “donna del popolo” a nuova vittima designata, perché nell’arco del racconto la sacerdotessa passa da beniamina a traditrice con una logica assolutamente moderna e marziale: nessun processo l’attende, solo una condanna urlata dalla piazza con una relativa violenta esecuzione. I temi suggeriti dal libretto potrebbero portarci ad una facile attualizzazione, ma questo non è necessario perché la scrittura musicale di Bellini riesce in modo moderno a farci scoprire personaggi che, una volta liberati dai numeri di parata, provano sentimenti umani. Che sono gli stessi che proviamo noi oggi.


 

 

 
 
 

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