L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Orphée minimal

 di Giuseppe Guggino

Dopo nove anni ritorna in scena a Palermo l’opera paradigma della “riforma” gluckiana, sebbene questa volta in versione tragédie lyrique revisionata da Héctor Berlioz per lo storico repêchege del 1859 con Pauline Viardot. Orphée è Marianna Pizzolato, al debutto operistico nel teatro di casa propria. Nonostante il grande impegno del Corpo di ballo, delude e di molto l’inconsistente parte visiva dello spettacolo dovuta a Frédéric Flamand.

Palermo, 20 febbraio 2015 - Marianna Pizzolato è di gran lunga tra i migliori mezzosoprani oggi in circolazione, non si può che apprezzare il velluto della sua gola e lodarne il legato; e non si può che gioire, finalmente, per il suo debutto operistico a Palermo, sebbene tardivo, giunto solo dopo che si sia fatta apprezzare in mezzo mondo, ma con un anno di anticipo rispetto alla prevista Angelina della prossima stagione, grazie alla sostituzione di una collega (peraltro sconosciuta). Tuttavia la cornice di questo debutto, non sembra avvantaggiare il valente mezzo palermitanto (nonostante abbia già cantato Orphée nella revisione per Pauline Viardot al Festival Berlioz in Francia) giacché si cala con la serietà e il professionismo che le sono propri in uno spettacolo francamente inconsistente, minimo anziché minimalista, vuoto. Meglio avrebbe fatto a ricusare un orrendo abito bianco e tante stupide mossettine vagando per il palco, e almeno avrebbe potuto concentrarsi sulla parte vocale rendendocela da par suo, e invece si trova a lasciar trasparire la palpabile emozione per il debutto “in casa”; evita il registro di petto per ogni affondo al grave, cerca una risoluzione del ruolo esclusivamente nel canto patetico, non sguaina una presenza scenica da tragédienne, semplifica un po’ la cadenza Viardot dell’air “Amour, viens rendre”. Che poi il solo ascolto di “J’ai perdu mon Eurydice” riscatti tutte le altre occasioni sprecate è abbastanza ovvio, conoscendo la qualità del suo strumento. Impegnata come Eurydice non spreca nulla, invece, la promettente Mariangela Sicilia che - anzi - capitalizza al meglio i suoi mezzi di sicuro interesse dei quali si auspica un prossimo riascolto; viceversa con l’Amore di Aurora Faggioli si vira verso il crepuscolo del belcanto.
Pur non essendo uno specialista del genere, Giuseppe Grazioli sul podio si dimostra ottimo musicista nel saper suggerire un fraseggio vario, nervoso, sebbene con sonorità contenute; purtroppo nel seguirlo i complessi del Massimo, sebbene volenterosi, non dimostrano grande precisione e la prova scivola via un po’ in sordina, pur con decoro. Con delle sonorità così ben calibrate, per i primi venti minuti dell’opera si sarebbe volentieri fatto a meno del rumorosissimo impianto di climatizzazione del Teatro, fortunatamente poi spento. Ottima la prestazione del Coro (per l’occasione ospitato in buca) istruito da Piero Monti il cui lavoro comincia a far registrare esiti tangibili.
La parte visiva dello spettacolo è l’autentico buco nell’acqua della serata, nonostante l’impegno ammirevole del Corpo di ballo del Teatro, quasi ininterrottamente in scena e in maniera ipercinetica per l’ora e 45 minuti dei quattro atti, inanellati senza alcuna soluzione di continuità. Le scene di Hans Op de Beeck si riducono ad un telaio basculante per uno schermo (e nient’altro) sul quale si proietta di continuo qualche vista di metropoli contemporanea (costruita con volumi razionalisti di sintesi) o delle bolle di sapone o qualche paesaggio in divenire che va costruendosi con gli alberelli finti posati uno ad uno e la sabbia versata a modellare colline; tutto molto francese, composto, elegante, minimalista, con gli uomini costretti dall’inizio alla fine in abito grigio da manager, e le donne prevalentemente in abito da stagista (quanto di più inidoneo per doversi muovere). Il regista-coreografo Frédéric Flamand, epigono dei linguaggi postmoderni della danza contemporanea, non lascia intravedere una sola idea di reinvenzione drammaturgica a sottendere il taglio estetizzante della regia che, giocoforza, rimane fine a sé stesso; e poi guai a far fare due movimenti in contemporanea a due persone, che poi la musica di Gluck abbia una sua struttura regolare è un dettaglio irrilevante. Quindi ore, ore e ore di estenuanti prove per arrivare a un risultato apparentemente improvvisato ma in realtà scientemente pianificato nei dettagli: le genialità della contemporaneità!
I tre cantanti dell’opera sono doppiati da ballerini con i quali si trovano anche a dover interagire occasionalmente; Orfeo in realtà è duplicemente doppiato da un Orphée noir per i momenti musicalmente agitati, e da un Oprhée blanc quando prevale il tono patetico, ossia rispettivamente il bravo Andrea Mocciardini e Christian Novopavloski. Una menzione particolare per Amore doppiato dalla deliziosa Lucia Ermetto, costretta sulle punte per la gran parte del suo intervento solistico da una coreografia di insano sadismo; più umane le richieste all’Eurydice doppiata da Valentina Pace.
L’unica idea dello spettacolo, ossia i ballerini a ricalcare Orfeo ed Euridice desta però un déjà-vu, e la memoria va inevitabilmente a quell’allestimento del Massimo di nove anni fa, sviluppato proprio sul medesimo punto di partenza e dai risultati complessivi più convincenti: chi l’avrebbe mai detto allora che ci si sarebbe ritrovati a dover rivalutare Luciano Cannito?


 

 

 
 
 

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