La prima compagnia: l'anelito all'eternità
25 settembre - È con la pazienza di un ragno che l’ormai certificata tenacia di Mariella Devia costruisce da quasi dieci anni questo onerosissimo debutto in forma scenica. Era il 2006, infatti, quando intraprendeva il suo personale percorso nella trilogia Tudor quale Maria Stuarda, tessendo il debutto in Anna Bolena che sembrava una sfida isolata per la lunghezza monstre della parte scritta per la Pasta e che invece è divenuto uno dei suoi cavalli di battaglia più sbalorditivi. L’approccio al ruolo più breve (e forse più micidiale) della trilogia, quello della regina Elisabetta del Devereux, si avvia con le recite in forma concerto a Marsiglia, Firenze e New York, giungendo a compiuta maturazione con il debutto in forma scenica di queste recite madrilene. E l’apoteosi di applausi piovuti a fine recita siamo pronti a scommettere sarà il viatico per un’altra stabilizzazione tra i cavalli di battaglia per un soprano che - a quarant’anni e più di carriera - sfida se stessa, prima ancora che il pubblico, con l’anelito d’eternità; sfida che, peraltro, puntualmente le riesce, così come le è sempre riuscita, almeno in tutte le occasioni topiche della sua carriera.
Il legato è immacolato come sempre, lo si percepisce già dal cantabile di sortita che si rivela una malìa per morbidezza di suono e lunghezza dei fiati, oltre che per la raffinatezza di accenti smorzati (“Ah se fui, se fui tradita”) e la saldezza dei trilli (“le delizie della vita”); ugualmente ammirevole è le cabaletta successiva, dove si apprezza tutto il lenocinio tecnico nel sapersi cimentare in un ruolo espressamente drammatico gravato da agilità discendenti (opportunamente modificate nel da capo) e scale semitonate ascendenti. Colpisce la varietà e l’appropriatezza di accenti che si può riscontrare nei momenti di interlocuzione, ad esempio nel duetto con Roberto dove il soprano dispiega l’energia di “Quando chiamò la tromba”, la poesia di “allora i giorni miei” e infine la mostruosa precisione nell’attacco dell’ultimo tempo secondo la veemente versione primigenia (poi proseguita dal tenore con la versione alternativa, come ormai di consolidata tradizione). Una tavolozza espressiva tanto ricca può risultare possibile solamente grazie alle enormi risorse tecniche che la regina del belcanto - prima ancora che d’Inghilterra – impiega nel lungo finale dove, oltre alla nota magia del legato nel cantabile, si esibiscono anche efficacissimi affondi al grave (“Spietato cor”) prima di culminare in una cabaletta da brivido, variata anche nelle intenzioni espressive, come il differente testo intonato suggerisce. Con una prova così, è inutile riferire del successo di applausi all’uscita singola. Chapeau!
A cotanta regina è difficile accostare un desiderabile Roberto, capace di non sfigurare; il Real ci riesce, ricorrendo a Gregory Kunde, tenore di carriera altrettanto lunga rispetto alla Devia e ugualmente sorprendente almeno per lo smalto esibito quando canta a piena voce. Il suo percorso artistico lo ha portato progressivamente ad abbracciare anche titoli verdiani, sebbene in questa circostanza sappia confermare la sua validità stilistica nel repertorio di primo ottocento; l’unico suo tallone d’Achille - che risiede da sempre nelle mezze voci - a carriera avanzata si traduce in qualche occasionale emissione fibrosa, oltre che nel vezzo di arrotare sulla “u” tutti i versi terminanti sulla vocale “o”, ma si tratta di appunti marginali a una prova di artista maiuscolo, seguita peraltro a una buona prima e a un concerto di beneficenza nel quale il tenore americano si è esibito con due duetti dall’Otello verdiano. Altro Chapeau!
La parte di Sara non sarà molto appariscente, ma è sufficiente per mettere in luce una Silvia Tro Santafé convincente nel registro mediosopranile, nonostante un vibrato un po’ acidulo in acuto; spiace quindi che sul suo da capo del Mosso agitato nel duetto con Roberto si sia abbattuto uno dei due tagli della serata (l’altro su una manciata di battute di coda nel duetto Elisabetta-Roberto), colpendo peraltro uno dei temi che ritorna come citazione strumentale all’inizio del III atto (quando le si recapita l’anello regale) e che quindi è drammaturgiamente sconveniente ridurre a stringata conclusione d’atto primo.
Nei panni del Duca di Nottingham il baritono Marco Caria si rivela sempre corretto, tranne che nella sua cabaletta dove forse i fiati avrebbero gradito un tempo più rapido.