L’isteria nella voce
di Valentina Anzani
Il secondo cast della Lucia di Lammermoor al Teatro dell’Opera di Firenze dipinge una cartolina realistica dell’ambiente culturale e storico originario del titolo donizettiano nella ripresa dell’allestimento di Graham Vick con una interessante Sumi Jo nella parte di Lucia.
Firenze, 27 settembre 2015 – Si riprende al Maggio Musicale Fiorentino l’allestimento che Graham Vick propose per la Lucia di Lammermoor della stagione fiorentina del 2006. L’impianto vede svolgersi l’azione nella Scozia dei primi del secolo decimonono; gli ambienti interni – sintetici, severi – sono separati con quinte-diaframmi da una natura al massimo del realismo, in una romantica corrispondenza d’affetti con le vittime sacrificali della vicenda.
Ricco di particolari, di dettagli, di riferimenti storici e còlti rimandi, è un allestimento che dimostra quanto la forza di un innovatore non risieda nelle scelte estreme, ma come si possa essere tra i più comunicativi registi del nostro tempo anche cimentandosi in una visione “tradizionale” del titolo che si mette in scena. La differenza la fa la messa in opera di una stretta simbiosi tra visioni scenografiche suggestive e l’estrema cura dei movimenti degli interpreti. Vick ha fatto di questa dualità il cardine della propria poetica, ma sembra che l’erede dell’odierna produzione, Maria Bianchi, abbia trascurato questa seconda – ma mai secondaria! – componente, abbandonando a se stessi gli interpreti sulla scena. I cantanti – o almeno il cast ascoltato nell'unica recita pomeridiana – reagiscono come possono e il risultato è una ricostruzione piacevole del contesto originario in cui è ambientata la tragedia scottiana, nelle voci più o meno coinvolgenti dell’Edgardo di Yijie Shi, tenore che compensa la mancanza del calore che un appassionato eroe romantico vorrebbe con una voce possente e dal bel timbro, del nervoso Enrico di Christian Senn, del possente Gabriele Sagona come Raimondo, dell’aggraziato Arturo di Emanuele D’Aguanno, del sottile Normanno di Saverio Bambi e della corretta Simona Di Capua come Alisa, guidati da Fabrizio Maria Carminati alla testa di Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino.
Si potrebbe anche tollerare l’operazione e accettarla come una volontà di distanziarsi dalla naturalezza per ricollocare l’azione in quel passato fatto d’etichetta e matrimoni di convenienza, eppure l’amaro in bocca resta: sotto la patina di rigidità generale, si potevano ancora intuire quelle tracce di una macchina drammaturgica potentissima, tracce che informano di non averne esperita che una mera riduzione.
L’unica che è riuscita a trarre partito dalle circostanze è Sumi Jo. Volontariamente o meno, assume movimenti stereotipati che aderiscono efficacemente alla figura di una Lucia puerile, burattino bistrattato nelle crudeli trame del fratello, che emerge dal fondale-cartolina come figura a tutto tondo. L’età da marito si leggerebbe in un appropriato muoversi, segno esteriore di una coscienza di sè, ma non è una Lucia padrona dei gesti da gran dama che accenna, e più spesso si abbandona a slanci bambineschi, che tradiscono quanto sia prematuro il passo che la forzano a compiere, quanto sia viziata e impreparata alla remissione, alla pazienza, ad accettare la gabbia dell’annullamento del proprio volere in nome di un tributo alla dinastia. Lei accetta, ma Edgardo ricompare solido e fervente per lei: è questo il momento della coscienza, in cui impara a cosa ha rinunciato – al proprio arbitrio: e non sono le scelte a fare di una persona quello che è? Il ritorno di Edgardo la spezza.
Il momento in cui perde il senno tanto si è distanziato dalla trasfigurazione sublimata dal belcanto, quanto si avvicinava a una vera e propria incontrollata crisi isterica. Ce ne ha resi partecipi la performance di un’artista che, fatti i conti con il proprio mezzo vocale, lo ha piegato alle necessità drammaturgiche del caso, anche a costo di rinnegare la tradizione: opaca nella voce di petto, roca nel registro grave, stridula negli acuti, Sumi Jo ci ha restituito davvero una Lucia incrinata, sull’orlo dell’autodistruzione. Rinunciando a morbidezza, squilli cristallini e vocalizzazioni flautate (ma senza intaccare la qualità di filati, agilità e fiati) avvicinava così tanto alla sua sofferenza interiore, che l’ovazione che è seguita alla scena di follia era un repentino risveglio da un’ipnosi d’inquietudine, acme emotiva insolita ma da togliere il fiato.
Foto Pietro Paolini - TerraProject Contrasto (le foto si riferiscono al cast della prima)