Un fato inesorabile
di Roberta Pedrotti
La direzione esiziale di Francesco Ivan Ciampa sembra determinata ad affondare questa produzione del Corsaro, già accidentata da numerose, e talora improvvise, variazioni in locandina. Peccato, perché l'allestimento di Lamberto Puggelli, nato al Regio nel 2004, si conferma particolarmente bello e intelligente e l'opera stessa meriterebbe di essere pienamente rivalutata come efficacissimo esempio di produzione "di genere"
Le precedenti edizioni di questo spettacolo in DVD
Gli altri servizi dal Festival Verdi 2015
Parma, concerto Kunde/Vitelli, 10/10/2015
Parma, concerto Pappano, 18/10/2015
PARMA, 20 ottobre 2015 - È la terza volta in undici anni che Il corsaro approda al Festival Verdi; partito dal Regio nel 2004, è apparso a Busseto nel 2008, per tornare ora nel capoluogo, sempre nel medesimo allestimento già documentato ufficialmente in dvd in entrambe le precedenti occasioni.
Questa reiterata attenzione non è immeritata, benché l'opera fatichi a essere apprezzata per quella che è, semplicemente, la sua dimensione; sicuramente non fra gli esiti più alti del genio verdiano, ma che non merita quella taccia di minorità così spesso invocata. E per un semplice motivo: Il corsaro è un'opera di genere, non è un testo di particolare profondità e, se non si può chiedere a Salgari di essere Shakesperare (e viceversa) ciò non significa che Salgari non sapesse fare il suo mestiere e non assolvesse egregiamente al suo compito d'intrattenimento. Così fulminante e avventuroso, Verdi crea già un perfetto esempio di cappa e spada ben più vicino ai moderni tempi cinematografici dei corposi feuilleton frutto della fantasia di un Dumas padre. Qui la fonte è Byron, il Byron più – idealmente – autobiografico e narrativamente ellittico, disperatamente frammentario. Verdi, con il fido librettista Piave, stringe ancor più le maglie senza lasciare un istante di respiro all'azione, eludendo perfino snodi, effusioni, chiarimenti, tanto da far emergere episodi senza una vera soluzione di continuità, ma senza lasciarci il tempo di badare troppo alle sottigliezze. Resta così, nella vivacità di battaglie, colpi di scena, amori, tradimenti e morte, solo una sensazione delle psicologie dei personaggi, tutti segnati dall'ombra di un mistero e da un passato malinconico: Corrado lamenta che “un fato inesorabile ogni mio ben rapì” e anela all'autodistruzione praticamente in ogni intervento; Medora è corrosa internamente da un presagio di morte e non potrà che realizzarlo alla sua seconda, e ultima, apparizione; Gulnara cerca di combattere il suo destino, ma nel ruo riscatto dalla schiavitù e dall'abuso si troverà solo con un amore non ricambiato – e suicida – e le mani lorde di sangue; lo stesso Seid ha modo di esprimere melanconicamente i suoi tormenti di innamorato deluso. Ma sono lampi, momenti agitati dal turbine di un'azione che si consuma frenetica in appena un'ora e quaranta. Un perfetto quadro avventuroso, dunque, in cui gli ingredienti sono miscelati alla perfezione per un intrattenimento che coinvolga al punto giusto senza andare troppo in profondità, senza turbare i tragici sensi di pietà e terrore.
Verdi è maestro anche in questo: anche se il suo ideale teatrale è altro e del Corsaro, a Trieste, diserterà anche il debutto (più per dissidi con l'editore Lucca, comunque), la scrittura è sempre di qualità, giusta nella situazione, ricca di finezze anche strumentali che sono parte integrante e imprescindibile del suo linguaggio. Così, come si potrebbe disprezzare lo schizzo tempestoso del preludio? O il sottile parallelismo melodico che traspare fra i cantabili di Corrado e del suo nemico Seid quando entrambi lamentano una felicità sfiorata e perduta? O quel movimento giambico di semitoni nella morte di Medora, topos che ritroveremo nel pianto di Gilda come in tutte le agonie delle future eroine? O l'articolazione della scena di catene di Corrado, con il duetto con Gulnara – il numero più complesso dell'intera opera – l'omicidio di Seid e la fuga?
Il corsaro non chiede di essere Don Carlo. È Il corsaro, e come tale funziona benissimo.
E funziona sempre benissimo l'allestimento firmato nel 2004 dal compianto Lamberto Puggelli e giustamente sfruttato dal Regio. Benché, complici anche i numerosi cambi in locandina, la ripresa curata da Grazia Pulvirenti Puggelli (moglie del maestro) non rinnovi l'incisività e il ritmo teatrale perfetto della produzione originale, le scene di Marco Capuana mantengono intatto il loro fascino e la loro eleganza, ben illuminate dalle luci di Andrea Borrelli e integrate con i costumi di Vera Marzot e l'opera del maestro d'armi Renzo Musumeci Greco. Lo spirito dell'opera è còlto, sembra di tornare alle belle illustrazioni di un romanzo d'avventura d'epoca, con odalische giustamente da cartolina, corsari giustamente romanticissimi nei loro costumi neri con ampie camicie bianche, fanciulle sventurate a muoversi come sonnambule con un lume acceso, in morbide vesti bianche celesti. Il gioco cappa e spada, con qualche allusione al teatro d'opera dei tempi che furono, è stilizzato con gusto, bilanciato con ambienti essenziali: il ponte della nave, vele, sartie che la magia del palcoscenico trasforma in sale, tende, torri, sbarre, tempeste, ma svela anche in una doppia natura di sipari, fondali, quinte, tiri. Un gioiellino tutto da guardare, senza impegno, ma anche senza banalità: Il corsaro visivamente perfetto.
Quel che non è perfetto è il risultato musicale invero assai accidentato, che ha visto esibirsi, nei ruoli principali, un solo nome già presente al primo annuncio del Festival 2015. Si tratta di Jessica Nuccio, una Medora (il nome della figlia che Byron ebbe dalla sorellastra) troppo fragile vocalmente, in continuo affanno anche in una parte non improba di seconda donna graziata dall'aria più celebre dell'opera, che tuttavia l'ha messa duramente alla prova nel legato, nei melismi dell'aria, perfino nel duetto e nel finale, sempre tesi, sottili e vetrosi, quando non impacciati musicalmente.
Tornano, in extremis, due interpreti delle recite bussetane del 2008: Silvia Dalla Benetta a sostituire sin dalla prima la Gulnara di Paoletta Marrocu, Bruno Ribeiro, che subentra come Corrado a Diego Torre, colpito da insisposizione la sera della prima, portata faticosamente a termine.
Considerate le condizioni non ottimali della sostituzione, dobbiamo tuttavia constatare che la Dalla Benetta non si è presentata nella migliore forma vocale e che un repertorio onnivoro consumato con avidità non pare proprio averle giovato. Il timbro, mai particolarmente accattivante, è parso prosciugato, l'acuto ancor più tagliente e fuori controllo, musicalmente non troppo precisa e interessante (non parliamo dei comprensibili sfasamenti dovuti alla sostituzione in corso, ma di un fraseggio genericamente temperamentoso, di una coloratura per lo più approssimativa), soprattutto in più punti visibilmente stanca e costretta a camuffare con sussurri e rallentamenti il calo delle energie.
Viceversa Bruno Ribeiro migliora l'impressione pur buona destata sette anni fa. Non ci troviamo di fronte a un fuoriclasse, questo è chiaro, l'emissione non è sempre impeccabile, ma ha sviluppato volume e squillo sì da dare la giusta presenza sonora al suo Corrado. Come interprete non proporrà un prodigio di finezze e intuizioni, ma sente il personaggio, ne rende una franca irruenza non priva di una certa qual incoscienza giovanile mista a quel tanto che basta di malinconia e tormento da eroe maledetto. La presenza scenica è perfetta e qualche amnesia musicale e testuale si condona considerando anche che questa era la sua prima recita, affrontata con pochissimo preavviso.
Ivan Inverardi è quel ch'egli è. Non un cantante raffinato, non il cantante capace di rendere con nobiltà verdiana il canto d'amore infelice “Cento leggiadre vergini” né di dare alla ferocia di Seid qualcosa in più di una brutale protervia. Un cantante, viceversa eterodosso, vigoroso, dal suono rude e robusto.
Citati i ruoli minori, invero minimi in quest'opera, di Giovanni (Luciano Leoni), Selimo (Matteo Mezzaro) e dell'eunuco e dello schiavo (Seung Hwa Paek), lodiamo tutti i figuranti e il coro maschile, mentre le signore sono parse davvero sottotono, fin troppo flebili nei loro interventi.
Il problema, per tutti, veniva però dal podio. È vero che inizialmente era previsto Alain Guingal, ma Francesco Ivan Ciampa ha comunque sostenuto se non tutte la maggior parte delle prove e il risultato ha mostrato problemi ben più gravi di quelli imputabili a una preparazione frettolosa. La sua concertazione è greve, pesante, sbriga già il preludio senza badar troppo agli accenti che segnano il crescendo, l'immagine della tempesta, il contrasto con il tema centrale cantabile. Verdi, anche questo Verdi meno impegnato, non si può risolvere alla garibaldina, puntando sul fragore: Verdi non è volgare, non è un compositore di effetti, frenesie e foghe fini a se stesse, ma è un musicista nel pieno possesso di tutti i mezzi più raffinati per raggiungere il suo scopo. Se una buona orchestra come la Toscanini appare così greve e sbilanciata, non sempre impeccabile, se la scrittura strumentale suona banalizzata senza troppa cura, se le voci non trovano evidente sostegno e sicuro punto di riferimento, allora il problema sul podio non è trascurabile e certo non giova alla causa del Corsaro.
Applausi quasi unanimi (un isolato bu per Ciampa si è inteso) ma piuttosto tiepidi. Peccato, dopo il paradiso dei concerti di Kunde e Vitelli e di Pappano con l'orchestra di Santa Cecilia, scontiamo una serata di purgatorio.
foto Roberto Ricci (le foto fanno riferimento alla prima con Diego Torre)