Gli abissi di Wozzeck
di Pietro Gandetto
Chiusura di stagione, alla Scala, con Wozzeck nella ripresa dell'allestimento di Jurgen Flimm. Sul podio Ingo Metzmacher, nel cast spicca il protagonista Michael Volle.
Milano - 3 novembre 2015. Il Teatro alla Scala chiude la stagione lirica con uno dei capolavori del teatro novecentesto – il Wozzeck di Alban Berg – nella ripresa dell’allestimento creato nel 1997 firmato da Jurgen Flimm. L’Italia vide Wozzeck per la prima volta nel 1942 a Roma con la direzione di Tullio Serafin. Nel 1952 va in scena alla Scala con Mitropoulos. Sempre alla Scala, ritorna nel ‘71, nel ‘77 e nel ‘79 sotto l’egida di Abbado, e nel 1997 con la regia Jurgen Flimm e la direzione di Sinopoli, ripresa poi nel 2000 con Conlon e nel 2008 con Gatti.
Volendo paragonare il Wozzeck a un quadro, il primo autore che mi viene in mente è Franz Kleine, esponente di spicco dell’espressionismo astratto americano, movimento più noto, per relationem, grazie a Jackson Pollock. Per intenderci, Kleine è l’autore delle tele bianche “sporcate” da imponenti pennellate di nero. Uno stile apparentemente spontaneo, che non si rifaceva a figure o immagini precise e definite, ma che si concretizzava in brutali colpi di pennello dopo una “studiata spontanietà” preparatoria. La musica di Wozzeck è proprio così: forte, addensante, fluida e pervasa da una costante tensione drammatica. Inframmezzata da “colpi” vocali e orchestrali solo apparentemente improvvisati, ma capaci di creare un tormentato senso di tragicità. Poco importa quanto di tonale e di atonale vi sia nella partitura bergana, perché ciò che conta è la dirompente forza espressiva dell’opera, lontana da qualsiasi residuato tardo-romantico. Come le tele in bianco e nero di Kleine, anche la musica di Berg è un agglomerato di spunti musicali e situazioni sceniche tese all’inquitudine e alla frantumazione di ogni certezza. Una sincrasia tra sonorità ore gelide e aspre e ora più liriche e calde. La perfetta sintesi di un Novecento, di cui Berg è figlio, in bilico tra il primo e il secondo conflitto mondiale, con tutto ciò che ne consegue in termine di crisi d’identità, valori e ideali.
Va da sé che per poter “reggere” una partitura di questo tipo, sono qui, più che altrove, indispensabili un cast registico, vocale e orchestrale all’altezza, dotati della dovuta competenza tecnica e della opportuna sensibilità musicale. Nella fattispecie, la scelte registiche di Flimm si rivelano ancora attuali nell’accentuazione del carattere dei personaggi, di cui sono messi a nudo i contrasti, le debolezze e gli interrogativi - che restano privi di risposta. Una regia efficace nel far emergere la pietà che l’autore riserva ai criminali, agli emarginati e ai reietti. Di pregio la scena dello studio del dottore, in cui le fragilità psicologiche di Wozzeck sono messe a nudo come seminudo è il protagonista ispezionato dal sadico medico. Ben riuscita anche la scena della morte di Marie, che sprofonda negli abissi (come pure Wozzeck), rievocando le innumerevoli discese agli inferi dongiovannesche.
Le scene di Erick Wonder sono eloquenti nella resa della poetica di Berg. Le sezioni semi ellittiche, nella loro fissità, ben rappresentano il senso di chiusura e d’indifferenza del mondo di fronte alle debolezze e ai tormenti del protagonista, che non a caso è spesso posizionato proprio nei fuochi geometrici dell’ellisse. Al contempo, l’elemento scenografico ben rappresenta l’altare pagano in cui si consuma il sacrificio di Marie, simbolo dell’identità stessa di Wozzeck, costretto a delinquere per affrancarsi dal disagio che si porta dentro.
In questo contesto, Ingo Metzmacher si conferma direttore all’altezza di questo colosso musicale. La direzione è puntuale e ben capace di rendere la dovuta tensione drammatica che la partitura richiede. Il dissonante lessico atonale viene espresso con piglio (pur senza colori particolarmente coinvolgenti) e ciò che se ne trae è una buona fluidità della narrazione musicale.
In sintonia con le scelte direttoriali anche il cast vocale su cui spicca il protagonista Michael Volle, che ha saputo rendere in maniera plastica ed estremamente vivida le varie sfaccettature del personaggio. I sentimenti di angoscia e tormento di Wozzeck vengono dati in pasto al pubblico con un’agilità fisica e vocale smagliante, nonostante la stazza monolitica del baritono tedesco. La voce è imponente e ben modulata sia nei momenti di maggior impeto, sia nello Sprechgesang schoenberghiano, che non degenera mai nel mero parlato.
Meno entusiasmante la Marie di Ricarda Merbereth, vocalmente presente nel registro acuto, ma quasi assente nel resto della tessitura, dove non riesce a farsi strada e a bucare l’orchestra, pur se la direzione non si è contrattidistinta per volumi orchestrali particolarmente imponenti.
Il Capitano di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke non brilla per agilità vocale. Abbiamo invece apprezzato Michael Laurenz nel ruolo di Andres e Rudolf Johann Scahsching in quello del Matto, che ben si accompagnava all’efficace attorialità del protagonista. Il Dottore di Alain Coulombe è elegante ed espressivo nella resa scenica, ma la vocalità è stanca e poco incisiva. Buono il contributo di Roberto Saccà nel ruolo del Tambourmajor. Di pregio anche la performance di Andreas Hörl e Modestas Sedlevicius negli apprendisti. Degna di nota, pur nell’esiguità delle battute, la Margret di Marie-Ange Todorovitch.
Composti applausi da parte di un pubblico sicuramente coinvolto, ma purtroppo ancora intiepidito dal liguaggio atonale. In conclusione, un’apprezzabile chiusura di questa ricca stagione, in attesa della nuova apertura verdiana.
foto Brescia Amisano