La leggerezza di Violetta
di Antonio Caroccia
Il debutto di Maria Grazia Schiavo e l'esperta direzione di Nello Santi costituivano il cuore pulsante e il fulcro di una produzione musicalmente assai riuscita, ma che ha destato qualche perplessità per la messa in scena.
NAPOLI, 3 novembre 2015 - Dopo circa tre anni ritorna al San Carlo di Napoli La traviata di Verdi, con la regia di Ferzan Ozpetek e le scene di Dante Ferretti.
Iniziamo dalle note liete e molto apprezzate dal pubblico della prima del 3 novembre: la scelta in primis di Maria Grazia Schiavo nei panni di Violetta. L’artista napoletana, al suo debutto nel ruolo sulle scene del San Carlo, ha saputo magistralmente interpretarne la drammaticità, pur avendo alle spalle una brillantissima esperienza nel genere barocco. Ma proprio l’aver frequentato per anni un repertorio come quello barocco ha permesso alla Schiavo di mostrare tutte le sue doti di agilità e di leggerezza, che ben si addicono al personaggio di Violetta, pur tenendo presente tutte le sfumature drammatiche necessarie.
Sulla Traviata il pubblico sa (o crede di saper) tutto. Vuole dunque ritrovare quel che sa, risentire le melodie che conosce, riscontrare le proprie emozioni nei momenti topici dell’opera e soprattutto nel personaggio di Violetta. Con Maria Grazia Schiavo, bellezza e perfezione del canto sono assicurate.
Buona l’interpretazione di Ismael Jordi, che, tuttavia, pare fuori dal suo repertorio d'elezione in un ruolo come quello di Alfredo, che richiede più robuste doti canore.
Di spessore il Giorgio Germont di Giovanni Meoni: preciso e impeccabile, mai un dettaglio fuori posto.
Buone, anche, le prove di Marta Calcaterra (Annina), Massimiliano Chiarolla (Gastone) e deliziosa quella di Giuseppina Bridelli (Flora).
Magistrale la direzione musicale dell’esperto Nello Santi. Solo ascoltando La traviata che ha diretto ci si può rendere appieno conto di quanto sia sensibile e di come sappia rendere il dramma, il dolore, tutta l’umanità lacerante e dispersa che esiste in questo capolavoro verdiano. Santi ha spazzato via ogni patina del tempo, ogni polvere di routine, ogni consuetudine dalla partitura, ha perfino eliminato il Mi bemolle della prima aria di Violetta, tanto caro ai melomani e mai scritto dal compositore. Ci ha restituito una Traviata con un totalizzante fuoco interiore, come una inquietante, nevrotica ed esasperata preghiera, come un assoluto atto di dedizione e di sacrificio. Guidata da lui, dalla sua estrema e sorvegliata sensibilità, dalla sua attenzione al canto e al respiro verdiano, l’orchestra napoletana ha fornito una grande prova, quella dei tempi migliori. I violini erano presenti con una attenzione al suono che sbalordiva: senza compiacimenti, senza bellurie inutili. I violoncelli e le viole avevano un timbro brunito, malinconico, grave. Sottolineavano, mettevano in luce, davano prospettiva a ogni minimo particolare, senza mai dimenticare il disegno generale, lo sfondo, quel sapore di morte annunciata, quel senso di lamento che risuona nelle note della Traviata sin dalle prime battute e che si avverte anche nei momenti apaprentemente gioiosi. I fiati sono stati precisi e intonati, come nell’assolo del clarinetto nel Preludio del III atto.
Per nulla convincente, invece, la regia di Ozpetek: sapevamo già che l’epoca sarebbe stata quella di Proust. Il regista colloca la vicenda sullo sfondo di una Parigi, che, più che riecheggiare la belle époque, sembra guardare all’Oriente con i tessuti damascati dei salotti e le mezzelune sospese alle pareti. Nell’intento del regista appare senz’altro chiara la morale del tempo perduto, ma nella realtà questa si traduce in un non senso drammaturgico con lo spaesamento degli attori che spesso non dimostrano di aver assimilato pienamente questa contaminazione tra Oriente e Occidente. Tutto ciò appare evidente se si guardano le scene del premio Oscar Dante Ferretti che sembrano vuote dal primo al terzo atto: dal salone di Violetta si passa, infatti, al giardino della casa di campagna; una sorta di serraglio con un alto cancello su cui svolazzano bianchi tendaggi a mo’ di parasole. Piuttosto scarna la scena del terzo atto: un semplice letto illuminato da una fredda luce bianca. Dietro questa scelta, potrebbe esserci l’idea di mostrare una visione interiore della protagonista dopo averne mostrato lo sfarzo del mondo esterno. A noi è sembrata piuttosto statica la regia, stranamente molto poco cinematografica tenendo presente il background del maestro. Un ultimo accenno al balletto ridotto a tre zingarelle, con una coreografia inesistente che di sicuro non rispecchia la grande tradizione coreutica del San Carlo.