L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'ultimo dei russi

 di Roberta Pedrotti

 

Il festival pianofortissimo offre la rara occasione di ascoltare Vadim Rudenko in Italia. Una serata magica, in compagnia di un pianista la cui personalità si impone immediatamente per ampiezza, ricchezza di suono, libertà d'articolazione, slancio impavido ma non arbitrario o fine a se stesso.

BOLOGNA, 24 giugno 2015 - Dove se ne stava nascosto Vadim Rudenko? Classe 1967, nativo di Krasnodar (come Anna Netrebko), riconosciuto già nella prima infanzia per il talento prodigioso fiorito spontaneamente in una famiglia che non contava musicisti, riconoscimenti autorevoli, la vittoria del Premio Čajkovskij nel 1994, collaborazioni d'alto livello. E una discografia smilza smilza, di non facile reperimento, una curiosa latitanza dai grandi circuiti internazionali, tanto che dall'Italia mancava da ben quindici anni.

Lo ha riportato il Festival bolognese pianofortissimo, che non solo di giovani emergenti si occupa, ma, a più ampio raggio, di tutto quel che sembra difficile ascoltare in ambito pianistico nel nostro Paese. E gli siamo grati, perché Rudenko è un pianista che merita di essere ascoltato, e dal vivo.

Anche incontrandolo per la prima volta, nel momento stesso in cui poggia le dita sulla tastiera pare di conoscerlo e riconoscerlo immediatamente come unico e inconfondibile. Eccolo lì, il suono di Rudenko, il suo fraseggio. Ecco un pianista di personalità e solida scuola, e c'è sempre bisogno di artisti di personalità e solida scuola.

Certo, il suo Bach (Partita n. 2) può risultare quasi straniante rispetto a quello a cui siamo abituati, con un suono forse più analitico, cristallizzato, mentre Rudenko è denso, rigoglioso, quasi torvo, fra la solenne e cupa ricchezza di un organo e la mobile, vigorosa spigolosità di un fraseggio personalissimo. Momenti di luce, come insospettati riflessi sul ghiaccio nella notte, suggeriscono leggerezza nel successivo Mozart (Sonata KV 311), che pure respira di quella stessa intima ampiezza sonora e libertà d'articolazione sottesa alla firma inconfondibile del pianista.

Libertà, abbiamo detto, perché Rudenko conferisce un sapore peculiare alla linea musicale, ma con un gesto ricco e accurato che la fa apparire più il frutto di un rapporto strettissimo, di un vivere la partitura nel profondo, di una sorta di metabolismo del fraseggio che non deve essere confuso con l'arbitrio appariscente. È personalità di musicista e artista.

È chiaro quando dispiega le Variazioni su un tema di Paganini di Brahms, uno dei momenti più alti della serata: il colore, la sonorità, la rotondità densa e plastica di Rudenko sembrano la dimensione naturale del linguaggio brahmsiano e fra le righe sanno sorridere, ammiccare, brillare del gioioso virtuosismo paganiniano. Curioso, il sorriso di Rudenko, pianista morbido che ispira simpatia senza concessioni plateali, comunicando più che altro il piacere musicale celato fra calde pellicce, nelle sfumature avvolgenti e levigate di ombre opalescenti. Un carattere slavo sfuggente e seducente, rigoglioso e, a suo modo, sottile.

La seconda parte del concerto, tutta consacrata alla Russia, è, ovviamente, il suo terreno d'elezione. I primi quattro Moments Musicaux di Rachmaninov si esprimono nel loro proprio linguaggio, ma senza limitarsi a condividere genericamente una radice russa. Rudenko è sicuramente uno degli ultimi esponenti della vecchia scuola del pianismo romantico della sua terra, ma non è è semplicemente un esempio e un alfiere, non si può passivamente identificare tout court con una tradizione. Rudenko ne fa parte, ma al suo interno è unico e inconfondibile. Lo conferma l'approccio a Čajkovskij attraverso il filtro di un illustre collega: la suite dallo Schiaccianoci trascritta per pianoforte da Mikhail Pletnev, quindi inevitabilmente plasmata ad uso dello stesso trascrittore. Pagina spettacolare, fitta di difficoltà tecniche, che Rudenko affronta con una spavalderia abbagliante. Il Trepak, per esempio, già per sé diabolico di scrittura, è affrontato a una velocità turbinosa, ben superiore a quella staccata dallo stesso Pletnev. Certo, con questi tempi la precisione assoluta del minimo dettaglio non si potrà pretendere, ma non sarà certo Rudenko il pianista cui, pur con un'ottima base tecnica e un virtuosismo di tutto rispetto, richiedere una lettura analitica, meticolosa, dalla precisione sovrumana, tanto più che la brezza umida e pungente di questa serata bolognese morde per prima cosa le dita. Ci piace, e ci conquista, il suo gettarsi a capofitto in questo balletto pianistico, gioioso e impavido.

Senza essere essere il pianista titanico, tutto fuoco ed esplosioni dinamiche al limite dell'eccesso, Rudenko è sicuramente un artista dalle grandi pennellate, morbide e sinuose o rapide e nervose, ma non un miniaturista. La plasticità del suo modo di vivere la frase musicale, impavida nello slancio e nell'audacia, non è priva di sottigliezze, ma sempre comunicando un'ampiezza di suono, di colore, di visione che coinvolge e intriga. Che ci fa interrogare sul perché così un pianista così particolare e suggestivo, così generoso e garbato (anche nei due bis concessi) non sia più presente in cartelloni internazionali.

Noi, frattanto, ci godiamo l'occasione di ascoltarlo in una cornice superba e accogliente come quella del cortile dell'Archiginnasio, in un'incantevole comunione con la natura nel cuore della città, che vedeva, con il crepuscolo, il volo delle rondini cedere il passo a quello dei pipistrelli (gli eventuali versi di entrambi non turbavano l'atmosfera del concerto, mentre sempre deprecabile il momento di disturbo proveniente – si suppone – da un amplificatore irrispettoso di qualche locale di piazza Galvani o dei dintorni). Va reso poi merito ai mecenati di Allianz Bank che hanno coronato la magia della serata offrendo un brindisi a tutto il pubblico presente, e al maestro Rudenko, nelle gallerie dell'Archiginnasio, con l'opportunità ancor più preziosa di una visita eccezionale allo storico teatro anatomico, con le sue splendide decorazioni lignee.


 

 

 
 
 

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