Prologo
Nelle giornate del 21, 22 e 23 agosto 2015 abbiamo avuto il piacere di esser presenti al Moritzburg Festival, nella accogliente e bella Sassonia: un'esperienza istruttiva, che va a contrapporsi alla distruzione culturale umanistica odierna. Un ritorno al passato che si fa presente, senza che il sentimento provato scada in un senso di nostalgia, o peggio, d'apostasia dell'oggi. Gli uomini devono vivere la propria epoca, consci di poggiare sulle spalle di giganti, se sperano di divenir tali anch'essi. Un edificio senza fondamenta è destinato inesorabilmente a crollare e di esso non possono rimanere altro che macerie. Troppo spesso ormai si parla per motti, sentito dire e frasi a effetto, ma senza sapere, in sostanza, che cosa ci sia sotto. Senza sapere quali siano le fondamenta.
In terra di Germania, dove l'umanità visse una delle più immani tragedie che la storia ricordi, troviamo una fiammella di speranza. Come un eroe mitologico che cade e si rialza più forte di prima, dalle ceneri possono rinascere messi ancor più rigogliose, concimate dalla ricchezza d'un humus culturale passato, ma mai trapassato.
Il viaggio attraverso questa dolorosa e stimolante memoria ha inizio a Dresda; è proprio la capitale della Sassonia a evocare i primi afflati di stupore. Alcuni palazzi si alzano ancora maestosi, memori d'una bellezza e di un'eleganza che fu. Tracce dei pesanti bombardamenti si riscontrano ovunque, senza rovine, ma con un'alternanza stilistica fra antico e moderno in parte disarmante. Non possiamo esimerci dal pensare come dovesse essere l'abitato immediatamente dopo la caduta delle bombe: una grande distesa di rovine, un paesaggio quasi lunare, risorto dalle sue ceneri, ma senza che le cicatrici vengano celate.
Questa è Dresda oggi, ma, spostandoci verso Moritzburg, un altro pensiero corre al passato, a quel primo giorno di settembre del 1939, quando le truppe della Wehrmacht invasero la vicinissima Polonia, scatenando la grande reazione a catena, che non tardò a esplodere, dopo le annessioni di Austria e Cecoslovacchia. Ogni cosa nella natura vive del rapporto causa-effetto e non stiamo ora a indagare quale sia stato il gene d'origine della dell'insano morbo che strinse d'assedio l'Europa degli anni '30 e '40. Una guerra senza cavalleria, una guerra che mirava alla distruzione sistematica dell'uomo contro l'uomo e, in fondo, contro se stesso. L'uomo, tuttavia, sta ancora lottando, poiché la forza vitale non cessa di esistere, non ha cessato allora e non lo farà oggi.
Moritzburg è una cittadina accogliente, non molto popolosa, ma i cittadini sono pacati, gentili e di gran cordialità. Ampi spazi si aprono nel nostro orizzonte, fatti di fitte foreste, specchi d'acqua a fil di terreno e una grande aria di mistero, quasi di melanconia. Poco lontanto da noi si trovava una città celebre per aver dato i natali a Sigmund Freud, ma che ci ha colpiti per ben altro motivo, ossia il suo nome: “Freiberg”. Questo è un nome che suggerisce ben poco a chi non conosca la lingua tedesca, ma la cui traduzione letterale è incredibilmente esplicativa: “montagna libera”. Ecco un'immagine del territorio e dello spirito che ci circonda, la libertà non nel senso pratico, ma la libertà di ragionare, di sognare, di formulare elucubrazioni, in un vortice di profondità.
Sempre presso di noi, ma dall'altra parte della Sassonia, nacque un altro celebre personaggio, che molto ci suggerisce in quanto tale, più che per il nome della sua città: Karl Lachmann, il padre del metodo stemmatico, il grande procedimento d'analisi, non solo filologica, che si basa sulle fondamenta della logica hegeliana, “tesi”, “antitesi” e “sintesi”. Lachmann non le chiamava così e molte altre scienze e arti non chiamarono così il percorso, ma questo altro non è ciò che potremmo chiamare “la natura delle cose”, citando il celebre testo di Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, prima espressione del metodo stemmatico stesso. Che cosa ci ha portati a questa, seppur breve, raspodia Lachmanniana? La riscoperta della tesi, della recensio, come la chiamava lui, della prima fase: la passione, la vitalità, la fantasia, l'originalità la creatività. Basterebbe dire l'anima.
Nel fresco pomeriggio di sabato 22 agosto, fra pochi motori e molte carrozze, un locale professionista delle scienze mi domandò cosa avessi studiato. Con un lieve tratto di imbarazzo, dovuto all'autocommiserazione che chi si occupa di lettere e filosofia ha di sé in Italia, risposi: “filologia classica”. Sempre in Italia ci si aspetta risposte del genere: “No, intendevo di che cosa si occupa, nel tempo libero anch'io colleziono barattoli di latta”. Al contrario, questo serio professionista sassone sbottò in un sincero: “Schön!”, passando da un atteggiamento di cortesia comune al luogo, a un profondo rispetto, citando lui stesso con ammirazione personaggi come Karl Lachmann (di cui parlai anche la sera precedente con una simpatica giornalista russa), filosofi e linguisti. Dopo un iniziale stupore per questa reazione, del tutto inaspettata, è subentrato uno strano senso di orgoglio, di appagamento, di soddisfazione.
All'estero ci ammirano anche per quello che la cultura classica ha saputo dare, per quello che la musica ha saputo dare. In Austria, in Germania, in Polonia ci ammirano per quello che abbiamo saputo regalare e noi stessi facciamo di tutto per distruggere i giganti che abbiamo generato e sulle cui spalle ora non vogliamo poggiarci. I Titani tornano sempre dal Tartaro e Urano è destinato a soccombere sotto la falce di Crono. La falce di Crono, la falce del tempo, che dimostra che la stilla dell'anima, l'anima del fanciullo, l'anima del “perché”, vincerà per sempre, poiché l'uomo vince sempre l'uomo.
Orrori come la guerra, i bombardamenti, l'antisemitismo di allora, sono stati sconfitti, ma ricordiamoci sempre che la storia è ciclica, la storia si ripete e l'unico modo per sfuggire a un nuovo verificarsi di tali drammi, è combattere i nostri più grandi nemici: la superficialità e l'ignoranza.
Questa lunga introduzione fa da lancio al commento dei bei concerti che abbiamo ascoltato. Riguardo alcuni di essi, temiamo sempre che le parole siano avare, rispetto alle emozioni, poiché è sempre più semplice -anche se spiacevole- sottolineare errori e imprecisioni, piuttosto che tessere lodi.