Un (erotico) trittico tutto americano
di Stefano Ceccarelli
Il Teatro dell’Opera di Roma è annualmente impegnato in serate di esecuzione e divulgazione di danza contemporanea. A dare spettacolo, questa volta, sono tre coreografi americani, due defunti e oramai celebri, José Limón e Alvin Ailey, e uno sulla cresta dell’onda, Dwight Rhoden. A dirigere l’orchestra dell’Opera di Roma è David Levi. Una serata riuscita, che attesta il meticoloso lavoro che porta il corpo di ballo dell’Opera di Roma a dare sempre il meglio. E dal quale si spera si sia definitivamente allontanato l’oscuro nembo dello scioglimento.
ROMA, 15 aprile 2015 – Una serata di danza contemporanea, quella in scena al Costanzi. Tre coreografi americani ne sono i protagonisti: Alvin Ailey, José Limón e Dwight Rhoden. Uno stretto legame − una filiazione − lega l’unico dei tre ancora in vita, Rhoden, ai suoi connazionali colleghi passati: Rhoden fu infatti il primo ballerino dell’Alvin Ailey American Dance Theatre e ha ripreso, nella nuova coreografia creata proprio per il corpo di ballo della capitale, la celebre Ciaccona di Bach, sulle cui note Limón montò una sua famosa coreografia nel 1942. Ma le opere portate in scena al Costanzi hanno un più profondo fil rouge, il tema dell’eros, che pervade l’essenza di tutt’e tre le opere.
La coreografia d’apertura è proprio quella di Rhoden, And So It Is…, un trittico su musiche di Johann Sebastian Bach per clavicembalo e violino solisti (la Fantasia cromatica e fuga in re minore BWV 903 e la Toccata, adagio e fuga in do maggiore BWV 564, ambedue per clavicembalo; la Ciaccona dalla Partita n. 2 in re minore BWV 1004 per violino solo). «Le tre parti della mia coreografia sono variazioni sulle relazioni di coppia, le intermittenze dell’amore nello scorrere della vita. And So It Is… vuol dire è così che succede, dai tempi di Romeo e Giulietta e tutti gli altri. Ci sono storie laceranti e quelle tranquille, amori tiepidi e passioni tempestose. Forse oggi è un po’ più complicato intrecciare dei rapporti per tutte le sfaccettature con le quali abbiamo a che fare, ma in fondo è sempre lo stesso viaggio». Queste le parole di Rhoden a commento della sua opera. Un palco spoglio e un contro-sipario nero sul fondo sono il campo d’azione della coreografia di Rhoden. Ballerini in latex, con avvitati busti sintetici, neri, sono gli attori di questa epopea erotica in chiave moderndance. Un punto di forza del lavoro è sicuramente l’ambientazione luminosa, studiata e suggestiva, che lascia spazio a zone in ombra da cui i ballerini possono sortire grazie al contro-palco. Certamente d’effetto e fortemente straniante è la scelta della musica bachiana per clavicembalo e violino solisti (rispettivamente Antonio Maria Pergolizzi e Vincenzo Bolognese, che danno buona prova di sé), sovrapposta a una danza contemporanea e a un’ambientazione così particolare. La coreografia è imperniata sull’alternanza fra passi a due e ensemble, e in generale privilegia molto le linee tese, una decisa mimica, torsioni e sezioni più frammentate − senza obliare prese e più classici momenti, come le punte delle ballerine. L’idea di fondo è buona, ma la realizzazione spesso si impaluda in lungaggini; inoltre, talvolta, i ballerini sono sembrati non andare sempre perfettamente a tempo (ma si tenga conto della difficoltà di doversi muovere in alcune sezioni anche senza musica). L’effetto più straordinario è stato la traduzione coreografica delle due fughe bachiane in blocchi di ballerini che ripetevano lo stesso movimento andando a tempo con le voci fugate.
La seconda coreografia è oramai un classico: The Moor’s Pavane di José Limón, celebre coreografo del XX secolo. The Moor’s Pavane fu montata su musiche di Henry Purcell (nell’arrangiamento di Simon Sadoff) e andò in scena nel lontano 1949; Limón trovò ispirazione nello shakespeariano Otello, tragedia tra le più riprese nei più svariati ambiti dell’arte. Qui al Costanzi, la coreografia di Limón è ripresa da Sarah Stackhouse, che collaborò lungamente col messicano. I costumi sono assai belli e ci riportano direttamente all’ambientazione shakespeariana, come pure la musica di Purcell (di qualche decennio successiva alla première di Otello), creando, dunque, ancora un «ossimoro fra le tensioni vitali della modern dance e l’eleganza formale di pavane e rondò» (R. Battisti, dal programma di sala). L’orchestra accompagna con perizia, sotto la direzione di David Levi. I quattro solisti regalano una buona performance: nel ruolo del Moro, Giovanni Bella; in quello dell’Amico, Massimiliano Mariani; la Moglie del suo Amico è Anjella Kouznetsova; la Moglie del Moro Cristina Saso. La coreografia reinterpretata dalla Stackhouse appare forse più fisica rispetto a quella originale, che era più mimetica, tutta giocata sull’introspezione psicologica. La Stackhouse prepara qualche piccola variazione per risaltare le doti atletiche, in particolare, dei ballerini maschili. L’effetto è comunque emozionante: i giochi cromatici caravaggeschi creati dai costumi sul fondale scuro, i movimenti stilizzati e estremamente rarefatti, evocano un’atmosfera tesa, terrificante, sciolta solo dall’omicidio di Desdemona − peccato sia stata fatta la scelta di coprire l’atto dietro Jago e Emilia, a dispetto dell’originale in cui si vedeva bene Otello dimenarsi sul corpo dell’infelice consorte.
L’ultima coreografia, la più dirompente e coinvolgente, è The River (1970)di Alvin Ailey, su musiche di Duke Ellington − già portata in scena all’Opera di Roma nel 2012. Una serie di quadri staccati e susseguentesi, evocanti la discesa di un fiume verso il mare, metafora del cammino erotico di una coppia di amanti fra diverse sintomatologie sentimentali. Alvin Ailey maneggia istrionicamente i più disparati stili di danza: dalla modern dance, passando per il musical, il jazz, fino a risalire alla danza classica. Ma è stato giustamente notato che l’impianto generale della coreografia è fortemente orientato al balletto classico. Fresche e frizzanti, le musiche di Duke Ellington sono ben riprese dall’orchestra e da Levi. Tutto il corpo di ballo dà il meglio di sé, regalandoci uno spettacolo entusiasmante: soprattutto nella coordinazione dei balli d’assieme si è visto l’intenso lavoro, che ha decisamente ripagato. La coreografia è stata ripresa da un allievo di Ailey, Clifton Brown, che ha anche ballato in parte solista. Tra le sezioni meglio riuscite vi sono certamente Spring (Claudio Cocino), il sensualissimo Lake (Daniela Lombardo e Michael Morrone)e il quartetto maschile di ballerini in Falls (Giuseppe Depalo, Alessio Rezza, Emanuele Mulé e Michele Satriano), che danno vita a una grande performance virtuosistica. Godibilissimo anche il finale, con le sue contaminazioni da musical. Alla fine di ogni coreografia gli applausi sono giunti generosi: peccato il teatro fosse alquanto vuoto, triste testimonianza della poca cultura coreutica (in special modo, scarsissima cultura di danza contemporanea) diffusa in Italia.