Uno Schumann iper-romantico
di Stefano Ceccarelli
Schumann è l’autore marzolino del panorama musicale romano. L’Accademia di Santa Cecilia, di concerto con l’Accademia Filarmonica Romana e l’Istituzione Universitaria dei Concerti, danno vita a un’interessantissima retrospettiva monografica della musica di Robert Schumann. L’Accademia di Santa Cecilia ospita Daniele Gatti con l’integrale delle quattro sinfonie del tedesco; l’Accademia Filarmonica e la IUC presentano, invece, con i medesimi interpreti (B. Rana e il Quartetto Modigliani), i tre quartetti d’archi dell’op. 41, l’op. 47 (un quartetto per pianoforte e archi) e il quintetto dell’op. 44, regalandoci un’antologia estremamente interessante della musica da camera schumanniana. Il primo dei due concerti di Daniele Gatti, che torna a dirigere l’orchestra di cui è stato principale direttore dal 1992 al 1997, presenta l’accoppiata classica della Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore op. 38, “La primavera” assieme alla Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 97, “Renana”. Fra loro, l’Alt-Rapsodie per contralto, coro maschile e orchestra su testi di Goethe op. 53 di Johannes Brahms, cantata da una smagliante Sara Mingardo, interprete sempre intelligentissima e dotta. La rilevanza dell’evento è notevole: Rai Radio 3 registra e Rai 5 trasmette, proprio la nostra serata, in diretta.
ROMA, 14 marzo 2016 – Un’integrale delle sinfonie di Robert Schumann non può che essere un evento di rilievo mondiale. Amate istintivamente, qualche volta criticate nella forma, le sinfonie di Schumann rappresentano – forse più (e meglio) di altre partiture – perfettamente la Weltanschauung non solo di uno dei figli diletti del romanticismo europeo, ma anche di una precipua epoca, intrisa di sentimenti che avrebbero di lì a poco – uniti a altre e più varie istanze storiche – profondamente mutato il mondo occidentale. Elemento cardine del ciclo sinfonico schumanniano è, innanzitutto, l’«autobiografismo sinfonico» (espressione, azzeccatissima, che Antonio Rostagno usa nel suo pregevole programma di sala), che Schumann esplica in trame di allusioni e citazioni che rimandano a momenti e sentimenti della sua vita. Daniele Gatti, nel sentire e interpretare le prime due sinfonie (I e III), tiene molto conto di questo aspetto: sente e interpreta soprattutto la “Primavera” (I sinfonia) con una volontà esplicativa della partitura – che si trasforma, in più punti, quasi in un ansia – che ruba non poco a quel sentire «il femmineo come elemento di redenzione, l’immagine della primavera come rinascita terrena» (Rostagno), che pure è istanza fondativa della partitura. Così, se nell’Andante un poco maestoso (I) una rilassatezza agogica è certamente consona, un uso intensivo dell’indugio, quasi un rubato (soprattutto nelle sezioni congiuntive), pare meno azzeccato per la beethoveniana esplosione dell’Allegro molto vivace, dovesi nota una troppo marcata morbidezza, che toglie immediatezza al vitalismo ingenuo della melodia. Gatti fa capire subito come intende Schumann: si tratta di una lettura quasi alessandrina, più estetica che contenutistica e ritmica (in tal senso stupisce la levigatezza sonora e la morbidezza esecutiva che Gatti riesce a cavar fuori dalla magnifica orchestra dell’Accademia, che suona al solito divinamente). Siamo lontani anni luce dagli attacchi di polso di Solti (ho presente l’edizione del 1968 con i Wiener); certamente più vicini a un Bernstein: un Bernstein tardo, quello del 1985 (sempre coi Wiener), ma pur sempre assai più deciso e vitalistico di Gatti. Persino il finale I è di un vellutato quasi tardo-settecentesco. Notevolissimo, invece, il Larghetto (II), dove l’idea schumanniana di Gatti risulta assai più pertinente: ottimi respiri, lunghe arcate melodiche legate, belliniane, disegni armonici ben scanditi. Troppo raffrenato, ancora, l’attacco dello Scherzo (III), dove peraltro non si giunge mai a un’autentica speditezza agogica. Mi si precisa, qui, ancor meglio l’idea di fondo di questa direzione. Gatti intende Schumann in maniera romanticamente soffusa, liederistica, sempre venata di malinconia. Paradossalmente, dove ci aspetteremmo un canto melodico più vitalistico, Gatti è rallentante, raffrenante; nei discorsi armonici secondari, invece, è rapidamente incisivo, donando colore a sezioni dove, normalmente, non soffermeremmo la nostra attenzione. Tutto – val la pena ricordare – in un tripudio assoluto di carezze sonore, che risulta a conti fatti il miglior pregio di questa versione di Gatti. Il finale della Primavera ha un incipit leggermente più incisivo, il primo tema è vieppiù spigliato; ma l’agogica impaludata ritorna, la dilatazione di determinati momenti si rifà risentire: l’attenzione maniacale al suono è ovunque imperante, con volumetrie studiate fin nel minimo bilanciamento. In tal senso, il finale IV – di cui giustamente Rostagno ricorda il valore di rumoroso stordimento dell’anima, che tenta di scrollarsi (con ambiguo risultato) le allucinazioni notturne – fa ben poco rumore. Così credendo, Gatti ha rinunciato a sondare quelle «aporie della forma» che Rostagno invocava come elementi fondamentali della Primavera, e che lui tende quasi a appianare in nome di un perenne, romantico velo di melanconia: un velo iper-romantico, come il suo Schumann.
Non si può non essere completamente d’accordo con Gatti, al contrario, nella sua lettura della Rapsodie op. 53 di Brahms. Gatti riesce a creare le atmosfere giuste, caravaggesche, palpitanti. In particolare le ansie che sorreggono il fraseggio recitativo del contralto («Aber abseits, wer ist’s?») sono ben disegnate: Sara Mingardo vi s’appoggia con quella sua voce morbidissima e piena. La dotta cultura, tipica delle sue interpretazioni, si vede nell'intelligenza esecutiva: quasi sperduta nella prima strofa, più incisiva – con abbandono – nella seconda (dove mostra potenti e centratissimi bassi), dolcemente lirica nella strofa col coro maschile (ottimo), la Mingardo ci fa ascoltare tutto. Emerge un amalgama lirico – uno strizzar d’occhio di Brahms, tutto tedesco, a tanta produzione operistica italiana – ragguardevole: tanti gli applausi e i complimenti alla Mingardo, che riceve anche dei fiori.
La serata è conclusa dall’esecuzione della Renana (III sinfonia). L’attacco del I movimento è più spedito rispetto alla Primavera: il romanticismo sentito da Gatti è qui finalmente più corale e popolare. Ma nelle maglie del discorso ritornano gli indugi, gli impaludamenti – pur sempre, certo, forbiti e timbricamente magnifici (in tal senso citerei la sortita del corno, eseguita perfettamente, sul vapore degli archi): un’esplosione, quindi, ancora riflessiva. Lo Scherzo (II) lo incoronerei come movimento meglio diretto da Gatti nella serata (assieme al Larghetto di Primavera): ecco finalmente uno spiraglio ritmico beethoveniano, agreste, dal sapore popolare. Gatti si dimentica, anche se per un attimo, delle redini. Dopo un buon Nicht schnell (III), anche nel Freierlich (IV) rende benissimo il senso di austera sacralità riformata, intimistica e maestosa al contempo. Se l’attacco del finale è ottimo, Gatti non realizza però appieno l’onda sonora del finale (beethovenianamente collettiva, sociale) rimanendo su volumetrie volutamente contenute. Applausi contenti salutano le esecuzioni schumanniane e ne attendono il prosieguo.