Alla testa del Battista
di Francesco Lora
Rara esecuzione del San Giovanni battista di Stradella per l’Accademia Filarmonica Romana: capolavoro insidioso, spetta qui ad Alessandro Quarta e al suo Concerto Romano, dando àdito a qualche chiosa ma meritando un perfezionamento.
ROMA, 7 aprile 2016 – Non è esagerazione pubblicitaria quella dell’Accademia Filarmonica Romana, quando presenta in termini superlativi il San Giovanni battista di Stradella (Roma 1675); ora ripreso al Teatro Argentina, l’oratorio in questione è capolavoro drammaturgico-musicale in sé, e soprattutto passando per le mani di Francesco II d’Este, musicofilo duca di Modena, esercitò una formidabile influenza stilistica sulla prassi esecutiva e compositiva nell’Italia centro-settentrionale dell’ultimo quarto del Seicento: ridefinizione delle tessiture vocali, innovazione delle figurazioni melodiche, dialettica di concertino e concerto grosso, codificazione di tópoi del genere dell’oratorio (interpolazione di madrigali in luoghi fissi, parti concluse da duetti, drammaturgia poi ricalcata in quasi ogni altro oratorio sulla storia del Battista: ma gli stessi schemi si ritrovano anche nel Mosè legato di Dio di Giovanni Paolo Colonna, Modena 1686).
Va da sé che tanta portata storica reclami nel contempo un calibro interpretativo superiore: erudizione musicale, studio retorico, abbondanza di risorse tecniche e d’organico. Alla Filarmonica, il progetto è stato coordinato da Alessandro Quarta, un musicista di rara sottigliezza e intraprendenza, al quale si devono la riscoperta e la rivalutazione di numerosi maestri di scuola romana del Sei-Settecento; ne conosce cifra e codice, e delle loro musiche ha presieduto esecuzioni memorabili per franchezza, sontuosità e autentico gusto italiano, senza le mistificazioni dei presunti specialisti d’oltralpe. Candidato ideale, dunque, all’operazione stradelliana; la quale però, alla resa dei conti, gli “cade” ancora un poco larga e invoca un proseguimento con qualche rettifica. Si apprezza, cioè, l’evidente coscienza del testo e della sua esegesi, ma vengono talvolta a mancare i materiali o la chiave indubitabile che metta la museruola al musicologo guastafeste.
Primo problema: l’equilibrio di concertino e concerto grosso, ossia del trio di strumenti soli sui quali si innesta in passi deputati, con improvviso ed entusiasmante rinforzo, l’insieme degli altri strumenti. Il miglior esito si ottiene, come già si faceva all’epoca, con un alto rapporto numerico: trio contro una massa abbondante, da calcolarsi in almeno venticinque-trenta esecutori; ciò, tenendo anche conto del generoso riverbero di uno spazio ecclesiale, laddove l’asciuttissima acustica dell’Argentina imporrebbe un ulteriore ampliamento. Le ottime fila del Concerto Romano, l’ensemble strumentale diretto da Quarta, si presentano invece in numero piuttosto ridotto; a vanificare un adeguato contrasto di concertino e concerto grosso è poi un uso fin troppo variegato degli strumenti del basso continuo: uguale nell’uno e nell’altro caso, ossia poco polposo per il concerto grosso ma sovrabbondante per il concertino.
Secondo problema: reclutare o quantomeno avere a disposizione una compagnia di canto corrispondente a difficoltà ordinarie (ma reali) o straordinarie. Difficoltà ordinarie, risolte in modo non immacolato e però oltremodo interessante, sono quelle connesse alla parte eponima. Contraltile, essa pone gli ostacoli tipici di una parte tardosecentesca in tale registro: troppo profonda per la maggior parte delle donne ovvero ben risolvibile per mezzo di un controtenore, ma a costo di un falso storico. Qui si è tentata una terza via, cioè convocando un tenore contraltino, che raggiunga l’infida tessitura non affondando nel registro grave, ma volatilizzandosi nel registro acuto, ai confini del falsetto e dell’estrema androginia vocale. Il cantante in questione, Andrés Montilla-Acurero, rimane lontano dall’onnipotenza, ma dimostra le ragioni e la possibilità di tale soluzione.
Le difficoltà straordinarie sono invece quelle connesse alle parti di Erode e, soprattutto, di Erodiade (cioè della Salomè narrata da Flavio Giuseppe, anonima nella Bibbia, che nell’oratorio mutua il nome dalla madre). La prima è di basso, estesa oltre il consueto: la tiene Mauro Borgioni, baritenore che domina il registro acuto con inedita facilità, ma che per virtù tecnica sa scendere con agio anche sotto il rigo. Si tratta peraltro di uno tra i rari specialisti del repertorio barocco a vantare autonomia intellettuale nella restituzione del testo: ed ecco uscirne un monarca dalla personalità turbata, alterata, ossessionata, stupendamente calligrafato nel fraseggio ma trattenuto al di qua della caricatura; è così costruito il tiranno e l’instabile, ma è nel contempo evitata la caricatura tanto cara al teatro contemporaneo quanto inconcepibile nella cultura dell’Ancien Régime.
Ancor più spinoso è il caso di Erodiade, anch’ella spinta ai limiti estensivi del registro e, soprattutto, personaggio variegato e mellifluo, perverso e sfuggente. Sono necessari resistenza fisica, vocalizzazione facile, lunghezza di fiati e capriccio attoriale. Sonia Tedla Chebreab, qui convocata, rasenta il passo più lungo della gamba di fronte a un impegno non comune per alcuna: bene fa a giocare tutto su una sostanza vocale di timbro e pasta infantili, incapace di sensualità e aggressività, e a intonare la richiesta della morte del Battista non con aria di sfida ma con un istantaneo e sommesso turbamento; se ne ottiene un personaggio diminuito ma inconsueto e in sé coerente: avesse osato di più, l’avrebbe attesa un gorgo. Appropriatamente untuoso il Consigliere tratteggiato dal tenore Luca Cervoni, insipida la Madre ove Carla Nahadi Babelegoto fa quel che può.
Pessima l’idea di demandare a quest’ultima, per non lasciarla a bocca asciutta in una parte priva di arie, il pezzo di sortita che tutti i manoscritti musicali e i libretti a stampa, a un’analisi attenta e pur tra qualche formulazione equivoca, assegnano senza dubbio a Erodiade: si accontenta in tal modo una comprimaria impoverendo l’indicativa onnipresenza di un personaggio dalla fattura superba. Non difendibile con oggettività, ma accattivante, purché lo si faccia una tantum, l’idea di staccare il sublime lamento di Erodiade, «Queste lagrime e sospiri», a tempo dilatato in corrispondenza dei primi due versi, ma più animato in corrispondenza dei due successivi (alleviando in tal modo la cantante da frasi lunghissime e ardue da sostenere con un unico flusso di fiato). Non troppo disinibito, ma sempre accurato – non è affatto poco – il resto. E adesso si prosegua.