Rossini eleison
di Giuseppe Guggino
Alla Petite Messe Solennelle rossiniana della stagione sinfonica del Teatro Massimo si segnala la prova del Coro residente diretto da Piero Monti ma delude il quartetto di giovani solisti, complessivamente piuttosto diseguale.
Palermo, 11 aprile 2016 - È un Rossini settantunenne quello che nel 1863, dopo anni di silenzio quasi assoluto se si eccettuano i Péchés, concepisce questa Messe “estrema” in tutti i sensi, come ultima pagina di una percorso compositivo unico, estrema nei risvolti armonici inusitati e imprevedibili, nel carattere stilistico sospeso fra modi arcaicizzanti e insospettate anticipazioni del Novecento, finanche nell’organico originario composto da quattro solisti, otto coristi, un pianoforte primo, un secondo di ripieno per i numeri con Coro e per l’Agnus Dei e, infine, un harmonium-Debain. Ne seguì anche una versione orchestrata, ma il fascino di quella cameristica rimane ineguagliabile e, giustamente, questa sceglie il Teatro Massimo di Palermo nell’ambito della sua stagione sinfonica. A dire il vero, l’edizione proposta non è esattamente quella originale giacché, come chiarito da ben due edizioni critiche pubblicate quasi in parallelo (di Philipp Gossett e Patricia Brauner per Bärenreiter e di Davide Daolmi per la Fondazione Rossini), Rossini apportò alla petite partitura eseguita in forma privata nel 1864 (stadio fotografato da un testimone manoscritto non autografo, contenente la dedica alla Contessa Louise Pillet-Will) delle modifiche di lieve entità – verosimilmente in vista della redazione della versione orchestrata – specie nei pezzi corali, enfatizzandone puntualmente la retorica della scrittura, la ridondanza di accordi, oltre che nella parte del pianoforte di ripieno e aggiungendo un numero per soprano che, se trasposto un tono e mezzo sotto, può essere affidato al contralto. In questa versione “intermedia” la Messe si è udita lunedì scorso nella sala del Basile sotto le affidabili mani del maestro Piero Monti, direttore del Coro del Teatro.
Il simmetrico Kyrie tripartito iniziale pareva porre le aspettative per la serata sotto i migliori auspici, giacché la prova del Coro residente – sebbene piuttosto potenziato rispetto agli otto elementi pensati da Rossini per l’inaugurando salotto di Casa Pillet-Will – eccelleva per compattezza e varietà di intenzioni dinamiche e anche Giuseppe Cinà nella parte del pianoforte primo, coadiuvato da Salvatore Punturo all’harmonium e da Giacomo Gati al piano di ripieno, pareva lavorare di cesello nel differenziare i legati dagli staccati scritti, così come tutti gli altri mille estrosi effetti di cui lo sparito è pervaso.
È l’ingresso dei solisti a riportare le cose sulla terra. Già nel terzettino del Gratias si rintraccia una certa assenza di equilibri tra le voci, con il versante maschile nettamente al di sotto di quello – pur non ineccepibile – femminile; si tratta in massima parte del secondo cast per La Cenerentola in preparazione in questi giorni a Palermo.
Spiace dirlo ma Giorgio Misseri, recentemente assurto alla reputazione di tenore rossinano, sembra avere molto e molto ancora da affinare: l’emissione è rigida e muscolare in acuto (sebbene la parte non vada oltre il La, differentemente dall’exploit tenorile richiesto nello Stabat Mater rossinano) e invero poco sonora; il bagaglio tecnico è appena sufficiente a reggere con sforzo la prima parte del Domine Deus ma non le smorzature e il fraseggio ricercato che abbisognerebbe quella centrale.
Gianluca Margheri presenta bel timbro al centro, ma la consistenza svanisce in basso e l’emissione si fa approssimativa financo nel dettato ritmico allorché gravita nella regione alta del pentagramma, richiedendo anche due ripieghi all’ottava bassa nelle ascese al Do# di Jesu Christe (opzioni comunque previste da Rossini alle bb. 569 e 630).
Cose migliori – si diceva – dal versante femminile (infatti il Duetto Qui tollis fa riguadagnare un po’ di quota alla serata) sebbene né il soprano Mariangela Sicilia né il contralto Teresa Iervolino possano dirsi entusiasmanti. La prima rende la palpabile emozione all’attacco non molto fermo del Crucifixus e in un O Salutaris hostia (pagina non presente alla prima esecuzione della Messe, ma aggiunta per mutuazione dai Péchés nelle riprese del 1865) privo della necessaria morbidezza, anzi molto o forse troppo vibrato, nonché di varietà di fraseggio, non esulando comunque dalla correttezza.
Anche Teresa Iervolino, forte di un mezzo piuttosto interessante, crediamo dovrebbe con un po’ d’umiltà consolidare la proiezione, giacché la voce non si spande ancora con quell’ampiezza di cavata che ci si attenderebbe da un contralto e anche l’intonazione necessiterebbe di maggiore controllo: insomma, alla Podlés dovremo chiedere ancora qualche altro anno di onoratissima carriera.
Il quartetto radunato, forse giustamente, spinge il maestro Monti a optare per il Cum Sancto Spiritu cantato solamente dal Coro nonostante la volontà di Rossini che annota “Les 4 voix Solo avec le Chœur”; analogamente nel Credo e, forse con maggiore perdita d’effetto, nel Sanctus, dove non si può cogliere appieno la finezza della scrittura contrappuntistica con le voci solistiche chiamate ad entrare e uscire dal canto d’ensemble.
Con la stanchezza il tocco si fa via via più bartókiano, ma comunque Cinà rende giustizia anche del Prélude Religieux, conquistando un meritato applauso isolato. L’Agnus Dei conclusivo giunge salvifico a togliere peccati del mondo.