L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Daniele Gatti

Elias il colossale

 di Francesco Lora

L’oratorio di Mendelssohn ha in Firenze un pulpito d’eccezione: dopo la memorabile lettura di Ozawa, quella di Gatti – assai diversa – impone ancora una volta gli eccellenti Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino.

FIRENZE, 9 aprile 2016 – I dieci anni passati paiono appena ieri, ed ecco che il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha calato un altro Elias memorabile. Nel 2006, per l’oratorio-capolavoro di Mendelssohn nel vecchio Teatro Comunale, v’erano Seiji Ozawa, José van Dam e Nathalie Stutzmann: un’esecuzione con tanto di allestimento scenico, benché asciuttissimo e dunque tanto più amato, e una lettura musicale pudica, sommessa, fraseggiata in punta di piedi anche quando coro e orchestra esplodono in vortici angelici; v’erano, appunto, il coro e l’orchestra del MMF, plastici come non mai, morbidi, vaporosi, cullati entro il mezzoforte. Ora, questi complessi non hanno dimenticato quell’esperienza e, nella nuova Opera di Firenze, sono stati pronti a un Elias di segno differente e non meno autorevole. Niente scene né costumi, ma la sola musica, come nell’uso del genere e nell’intenzione dell’autore; sul podio Daniele Gatti, innamorato di questo oratorio al punto da portarlo con sé in ogni istituzione ove tenga legami forti, e da volerlo lì ristudiare con ciascuna grande orchestra residente.

Nell’epoca che ha in Philippe Herreweghe, forse, l’interprete di riferimento, scarnificatore di turgori tardoromantici e capace di un’analisi tagliente e svelta, quella di Gatti risulta essere una lettura nostalgica, controcorrente poiché di tradizione (finita), e tuttavia così salda e assertiva da non suonare meno urgente ai nostri giorni. Tutto sembra filtrato non solo attraverso Wagner, ma anche attraverso l’idea su Wagner maturata nella prima metà del Novecento: nessun intervallo a sospendere il sacrale incedere della musica, per oltre due ore e in tal modo superando per lunghezza i primi atti della Götterdämmerung o del Parsifal; tempi dilatati all’estremo, così che i corali procedono immobili, immani, rocciosi, mentre ogni accordo può ascoltare il proprio riverbero e apprezzare il proprio impasto; canto tuttavia appoggiato senza sforzo sulla macchina colossale che ricalca le orme di Klemperer, Knappertsbusch e Krauss: il respiro è quello della natura, solo portato su altra e formidabile scala. Lascia attoniti, questo Elias, poiché di fronte alla richiesta del fermo, del tenuto e dell’estremo, coro e orchestra per nulla turbati permangono tuttavia in tensione, riversano ugualmente vividezza, afferrano e rilanciano la sfida tecnica e retorica loro gettata da una bacchetta inesorabile.

Meno impavidi si mostrano i solisti di canto, o per meglio dire meno motivati a fare di questa esecuzione un momento grande della loro carriera. Il soprano Genia Kühmeier e il tenore Rainer Trost sono campioni della scuola tedesca: tecnica adeguata, talvolta cervellotica, mai miracolosa, con i passi salienti del testo evidenziati da calligrafismi. Il baritono Peter Mattei li segue su identica strada, vantando mezzi vocali più cospicui ma finendo umiliato al cospetto della parte eponima: una delle più commoventi ed edificanti storie bibliche e umane non si accontenta di un porgere cordiale anziché trasceso o di un fraseggio compitato anziché commovente. Ma v’è anche la solita italiana guastafeste: in un teatro dall’acustica ingrata e in una concertazione megalitica, il contralto Sara Mingardo veicola su un volume modesto un timbro materno e vellutato, uno stile semplice e sincero, un eloquio ardente e palpitante, una serie di personaggi tutti coerenti nel materiale eppure contrastati nel carattere per mera modulazione di suoni; incastonata nel monumento di Gatti, questa figlia del Barocco rimane nel cuore.


 

 

 
 
 

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