In memoriam: Giuseppe Sinopoli
di Stefano Ceccarelli
Il concerto di Yuri Temirkanov all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia dedicato alla memoria di Giuseppe Sinopoli, a quindici anni dalla sua scomparsa, si apre con la Pavane pour une infante défunte di Maurice Ravel, passando poi a autori sinopoliani par excellence: Gustav Mahler, di cui s’eseguono gli struggenti Kindertotenlieder nella versione per baritono col bravo Markus Werba, e Johannes Brahms, con l’amata (da Sinopoli) Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98. Il concerto è un successo.
ROMA, 26 aprile 2016 – Speciale per più ragioni l’ultimo concerto di Yuri Temirkanov all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Innanzitutto perché è dedicato alla memoria del compianto genio della bacchetta Giuseppe Sinopoli, a quindici anni dalla sua scomparsa; poi perché Yuri Temirkanov andrà in mondovisione, in streaming, per il progetto Pappano in Web. Dall’Ongaro, inoltre, annuncia che alcuni ragazzi seduti in galleria saranno autorizzati a scattare foto e video da condividere sui social (facebook, instagram e twitter): iniziativa lodevole per far entrare la musica classica nelle vite di molti ragazzi.
Il programma si apre con la versione per orchestra (1910) della Pavane pour une infante défunte di Maurice Ravel, che – com’ebbe a dire lui stesso – era un brano dal sapore esotico, anticheggiante, smagliante di un’arcana e misteriosa armonia, che poco aveva a che fare con la morte in sé. Temirkanov non vuole fare un requiem per Sinopoli: è un omaggio affascinante alla sua arte di direttore. Eccetto qualche problema iniziale d’intonazione del corno, la melodia scorre dolcissima nell’intelaiatura degli archi (i pizzicati e le vellutate movenze delle arcate melodiche): in un’atmosfera di sensuale rêverie la melodia si passa fra i vari strumenti, creando effetti coloristici che Temirkanov esalta con una direzione pacata e morbidissima nei vari passaggi. L’orchestra dà il meglio di sé in un tripudio di delicatezze sonore. Di ben altra pasta i Kindertotenlieder di Gustav Mahler, autore tanto amato e studiato da Sinopoli: si dà la versione per baritono, con Markus Werba – era dal ’69 (Janigro che dirigeva Fischer-Dieskau) che non si dava questa versione in Accademia, prediligendosi sempre quella per mezzosoprano. L’orchestra è eccellente a tararsi su un timbro più scuro, cupo, introverso, dopo la Pavane; l’agogica impostata da Temirkanov è giustamente mortifera, paludosa, eccetto alcune parti in cui la scrittura mahleriana s’illumina d’immagini intime e borghesi, prima di ricadere nell’orrore della morte infantile (piaga, del resto, da non molto tempo solo parzialmente debellata). In «Nun will die Sonn’so hell aufgeh’n» Werba interpreta bene l’atmosfera fuligginosa (l’assillo dei pizzicati dell’arpa scanditi sinistramente dai campanelli), riuscendo con voce piena e duttile a stagliare un fraseggio consono all’ethos del pezzo. E sarà questa l’atmosfera prevalente che Mahler richiederà ai suoi interpreti, tranne qualche barlume estatico che non fa che precedere o significare la morte, come nella terza strofa di «Nur seh’ich, warum so dunkle Flammen», dove Werba è opportunamente trasognato, o nell’intero «Oft denk’ich, sie sind nur ausgegangen» dove si spera il ritorno a casa di due bambini ormai morti. «Wenn dein Mütterlein» nella versione per baritono è certo meno sinistro che in quella per mezzosoprano (la Horne, in questo pezzo, assume tratti inquietanti: la persona loquens è una mamma che parla di sé in terza persona, proprio come quando ci si rivolge ai bambini): Werba è bravo a mantenersi incolore, monocorde, mortifero. Il lied finale del ciclo («In diesem Wetter, in diesem Braus») si apre con l’agitazione orchestrale di un temporale e si chiude con l’elegiaca e commossa contemplazione dei bambini accolti fra le braccia di Dio: Werba è bravo a cambiare il colore della voce, giocando con volumi e sfumati. Gli applausi sono commossi: Werba ottiene un successo personale.
Il secondo tempo vede l’esecuzione di una partitura assai cara a Sinopoli, un suo cavallo di battaglia, la Quarta sinfonia di Johannes Brahms, che il veneziano ha diretto per ben due volte in Accademia (1984 e 1997). L’orchestra può ora dimostrare tutta la sua infinita bravura in un cimento vario e complesso. Fin dall’Allegro non troppo Temirkanov è stupefacente nel rendere la spessa, ma duttile, pastosità sonora della scrittura brahmsiana. L’attacco cullante, quasi un accenno di valzer ma fuor di tempo, incarna sonoramente tutto il sentimento dolceamaro di tanta poetica tardoromantica; Temirkanov controlla l’agogica perfettamente, calibrando i volumi e i colori, senza cercare l’effetto fine a sé stesso, risultando all’ascolto compatto ed elegante. Nell’Andante moderato il russo interpreta un Brahms autentico, a tratti ambiguo, profondo: la delicatezza cullante della melodia non è esente da sonorità più decise, emergenti dalla bruma romantica. Ottimo l’Allegro giocoso: accenti vividi, vigile direzione sempre attenta al ritmo cangiante, ineccepibile nel rendere le varie tensioni. Temirkanov, nel finale (Allegro energico e appassionato), dirige con sacra tensione le variazioni – e quando si parla di variazione non può che venire in mente Beethoven – arrivando a toccare vette sublimi nell’assolo arcaico del flauto. Gli applausi sono fragorosi, tutti per l’eccellente direttore e l’ottima orchestra.