Dvořák, tre volti per un ritratto
di Alberto Ponti
James Conlon e Jennifer Koh in un programma interamente dedicato al grande compositore ceco
TORINO, 6 maggio 2016 - Potrebbe sembrare un paragone irriverente ma l'unico altro contesto in cui, al modo di un concerto sinfonico, l'umore e la partecipazione del pubblico possono radicalmente cambiare dalla prima alla seconda parte è quello di una partita di calcio. Se ne è avuta prova giovedì 5 e venerdì 6 maggio all'auditorium Toscanini di Torino con un programma allettante e costituito da tre opere, assai diverse tra loro e perciò complementari, di uno dei grandi dell'Ottocento: Antonin Dvořák (1841-1904).
Apriva la serata l'ouverture Karnaval op. 92 (1891), brillante e giustamente celebre, che condensa in meno di dieci minuti tutte le migliori caratteristiche del suo autore: spontaneità e freschezza melodica, eccellente orchestrazione, suprema capacità costruttiva. James Conlon ne ha dato una lettura trascinante, scaldando il pubblico come un centravanti che trova subito la via del goal. 1 a 0 e palla al centro. Il concerto per violino e orchestra in la minore op. 53 (1879/82), presentato a seguire, vedeva l'intervento in veste di solista di Jennifer Koh (1976), statunitense di origine coreana.
Dvořák, eccellente violinista, scrive per il suo strumento il più debole dei propri concerti solistici, meno noto ed eseguito delle analoghe opere per pianoforte e violoncello. Introversa e piena di pathos drammatico, la pagina, ispirata al concerto op. 77 di Brahms di appena un anno precedente, soffre per la mancanza di idee melodiche veramente memorabili (presenti invece in quasi tutta la produzione del suo autore) e viene solo in parte riscattata dalla compattezza dell'edificio architettonico che rivela una capacità quasi beethoveniana di portare agli sviluppi estremi poche, scarne cellule tematiche. La Koh cerca di trarre il meglio da un lavoro che non la agevola e nel quale, ad evitare cadute di tensione, il compositore non prevede per il solista nemmeno la tradizionale cadenza al termine del primo movimento. Le difficoltà sono quindi tutte di ordine interpretativo, più che tecnico, e a poco valgono l'intonazione perfetta, l'enfasi dello slancio, la cavata dolce ma decisa, che rendono questa violinista, per la prima volta ospite a Torino, una delle più interessanti della sua generazione. Il solo, inarrivabile, David Oistrakh, che aveva nell'animo certe inconsolabili malinconie che solo gli slavi riescono a esprimere, riuscì ad avvicinare questo concerto ai più titolati capolavori del repertorio.
Nonostante il delizioso bis bachiano (il preludio dalla partita n. 3 in mi maggiore), il pubblico si dimostra non troppo caloroso, come al termine di una frazione di gioco in cui la propria squadra, pur avendo qualche occasione, non è riuscita a segnare il punto del raddoppio.
Dopo l'intervallo è stata eseguita la settima sinfonia in re minore op. 70 (1884/85), opera di altissimi pregi in cui Dvořák crea una magnifica sintesi tra la necessità di canto insita nella propria natura di compositore essenzialmente lirico e la tradizione del grande sinfonismo mitteleuropeo. Suggestioni del folclore boemo e influssi brahmsiani finalmente metabolizzati si fondono così un lavoro perfetto e compiuto, di un'intensità emotiva che in nulla cede alla linearità dello svolgimento.
Conlon, con l'aiuto di una strepitosa Orchestra Sinfonica Nazionale, sale in cattedra e, con gesto un poco sbrigativo ma decisamente efficace, ci fa assaporare prelibatezze come l'empito delle note ribattute dei legni nei due tempi estremi, gli interventi degli ottoni ad increspare le calme acque dell'adagio, gli staccati leggeri degli archi nel celebre scherzo. Quaranta minuti che scorrono in un soffio, al termine dei quali esplode un applauso finalmente convinto. Il direttore, dopo le prodezze da attaccante di razza che hanno messo in salvo il risultato, si inchina alle meritate ovazioni della curva, pardon, della platea.