L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

michael spyres

Né sa temer periglio 

 di Roberta Pedrotti

Storico concerto di Michael Spyres in omaggio ad Andrea Nozzari per il Belcanto Festival dell'Opera di Firenze. Il programma entusiasmante e l'interpretazione eccellente sotto ogni punto di vista siglano una serata memorabile.

FIRENZE, 11 ottobre 2016 - Ci voleva. In settimane in cui, a breve distanza, Semiramidi [leggi] sfregiate da tagli e Giovanne d’Arco [leggi] ridotte a stolide censure ottocentesche facevano temere una regressione nell’approccio al Belcanto, ecco che al Belcanto l’Opera di Firenze dedica un breve, intenso Festival e, in esso, un concerto da sogno.

Esattamente la realizzazione di un sogno, un momento di pura gioia artistica sono le due ore trascorse nel Nuovo Teatro di Piazza Vittorio Gui in compagnia di Michael Spyres, David Parry e dei complessi fiorentini in omaggio al grande Andrea Nozzari, creatore di tutte le opere serie napoletane di Rossini. Se in tre di queste (Armida, Mosé in Egitto, Maometto II) al primo tenore non è riservata alcuna pagina solistica, Spyres non teme di inanellare – in un’impresa che ha dell’incredibile – tutte le arie (tranne la cavatina di Antenore da Zelmira, cui è preferita la seconda e più estesa “Mentre qual fiera ingorda”) dai restanti sei titoli, cui vanno ad aggiungersi due opere emblematiche ai margini dell’esperienza rossiniana: Medea in Corinto di Mayr (1813), in cui Nozzari creò il ruolo di Giasone poco prima dell’incontro con il Pesarese, e Alessandro nelle Indie di Pacini (1824), di due anni successivo a Zelmira e alla partenza di Rossini da Napoli.

L’impatto vocale è elettrizzante, ché il programma è impegnativo e spettacolare come pochi, ritratto straordinario di una vocalità straordinaria, formidabile nell’affondo a profondità baritonali (le parti scritte per Nozzari giungono al Do2, nota comoda per i bassi) quanto spavaldo ai vertici acuti e sovracuti. Cantare, semplicemente, questo repertorio, e tutte queste arie in una sola serata, sarebbe già di per sé un cimento di fronte al quale inchinarsi, ma questo concerto è molto di più e va al di là anche della sbalorditiva resa vocale, o, meglio, dimostra come la sbalorditiva resa vocale non sia un esercizio pirotecnico e circense, ma un atto artistico consapevole e intelligente.

In primo luogo, la scelta dei brani. L’opportunità di ascoltare dal vivo pagine da opere di rappresentazione rara se non rarissima o inedita (dell’Alessandro paciniano, salvo smentite, si conta solo un’incisione per Opera Rara e nessuna ripresa scenica) è di per sé un valore e un’irresistibile attrattiva, ma all’ascolto offre un quadro illuminante dell’evoluzione dell’opera nel primo Ottocento e dell’eccezionalità dell’esperienza rossiniana. Sia Mayr sia Pacini scrivono, infatti, per Nozzari arie bellissime, ma di tessitura più contenuta, di scrittura tendenzialmente più omogenea, nella quale poi il cantante poteva esibire la sua estensione prodigiosa con puntature e variazioni, mentre Rossini crea e istituzionalizza su carta il mito di Nozzari, la sua eccezionalità. Sfrutta con una spregiudicatezza strumentale le sue qualità per renderle plastico strumento di un teatro potente, che si sublima in un canto assoluto, in salti e contrasti sovrumani che sicuramente erano nelle corde e nell’indole di Nozzari, ma che nessuno aveva osato sistematizzare come elemento di una drammaturgia e di un’estetica musicale. Il trattamento della linea vocale fa il paio con la scrittura orchestrale, che fa subito valere un disegno di classe superiore, un’altezza e una sintesi di pensiero che il confronto diretto con due pur eccellenti colleghi e contemporanei fa risplendere in modo particolare.

Ancora, l’asse Mayr-Rossini-Pacini evidenzia – e anche qui la lucida competenza stilistica di Spyres è illuminante – una continuità nell’evoluzione del melodramma, dall’intensità della Medea in Corinto, il cui incedere folgorante non è impacciato bensì elevato dal coturno, all’ambiguità prepotente del teatro rossiniano, al belcanto più ampio e cantabile dell’Alessandro nelle Indie, limpido esempio di come non si possa considerare la storia della musica per monumenti circoscritti, ma che Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi si collochino in un percorso unico, comune, al quale concorrono anche altri nomi, seppur meno fortunati o meno geniali. Definire l’aria di Pacini un anello di congiunzione fra Rossini e il Romanticismo sarebbe ingeneroso, negherebbe l’individualità storica di quello che è sì un tassello di un mosaico, ma che ha cause ed effetti, precedenti e conseguenti come ogni altro, anche se magari altri splendono di più.

Tutto il repertorio proposto si gioca nell’arco cruciale di un decennio e la grandezza di Spyres, come del suo compagno d’avventura sul podio David Parry, consiste proprio nel concretizzarne continuità e discontinuità, peculiarità singole ed elementi comuni, parallelamente a quanto già compiuto a Pesaro nell’omologo omaggio ad Adolphe Nourrit [leggi]. Là a essere celebrato era un tenore acutissimo, un haute-contre (si potrebbe tradurre in contraltino drammatico o di forza), mentre qui il riferimento è il baritenore per eccellenza; certo, Spyres, affrontando senza colpo ferire i repertori di entrambi conferma innanzitutto una consapevolezza tecnica fuori dal comune, ma anche un’intelligenza d’interprete acutissima, ché coglie perfettamente il tratto comune fra Nourrit e Nozzari: l’incisività tragica, la forza drammatica della declamazione capace di unirsi a un melos alato. Solo qualche dentale tradisce occasionale la madrelingua anglosassone del nostro tenore, il quale dipana il testo con dizione chiarissima e intelligente, rifuggendo le affettazioni che potrebbero affliggere chi, non nato italofono, ricerchi un fraseggio accurato e analitico. Viceversa, Spyres risulta preciso, ficcante proprio nella nobile naturalezza della prosodia musicale, dell’evidenza della parola e del verso, nell’espansione espressiva della “parole unie à la musique”, come emblematicamente Manuel Garcia jr intitola la seconda parte del suo Traité complet de l’art du chant. Proprio a Garcia è evidente che faccia riferimento Spyres, per lo stile, certo, ma anche per l’emissione, ricorrendo – seppur con discrezione – all’alternanza fra colore chiaro e scuro soprattutto nell’ascesa all’acuto. Così, se la voce possiede un piacevole, sensuale retrogusto brunito esaltato nel registro grave, ecco che nei centri acquista dolcezza e brillantezza e negli acuti talora mantiene la posizione scura, con omogeneità ma minor penetrazione, talora, ma non a caso, passa al colore chiaro, più sottile e lucente.

Spavaldo, può così percorrere gli estremi del pentagramma sì che abissi e vette non risultino giochi pirotecnici abbacinanti, ma espressioni estreme del testo, della passione, della situazione. Nondimeno, tale ampiezza si condensa nel cantabile, cui Spyres conferisce rara poesia padroneggiando trilli in ogni altezza e dinamica, filati, messe di voce e quanto esige una completa articolazione belcantista del testo. Basterebbe pensare alla tracotanza altera dell’attacco dell’aria di Pirro da Ermione, “Balena in man del figlio”, e a quell’angolo di paradiso che è l’immediatamente successiva invocazione amorosa “Deh serena i mesti rai”, variata nella ripresa con vellutatissime sinuosità baritoneggianti e bagliori acuti dolci come il miele. Ma il discorso potrebbe ripetersi simile e diverso per ogni pagina, per l’incosciente esultanza di Otello, per la spavalderia di Rodrigo di Dhu (La donna del lago), per la scena di catene di Leicester da Elisabetta regina d’Inghilterra (cos’è quel recitativo iniziale! cosa sono quell’assopimento sognante e quella disperata cabaletta!), per l’insidiosa trama di Antenore (Zelmira) o per l’alterigia e la passione di Agorante (Ricciardo e Zoraide). Non si possono dimenticare, poi, l’eccellenza del suo ambiguo Giasone, mollemente amoroso e incostante come il protagonista delle Argonautiche di Apollonio Rodio, disperatamente eroico come un una tragedia classica, o il suo regale Alessandro, dolce e dolente nella sua nobile rinuncia amorosa.

Non sembra esagerato dire che alcune di queste arie non sono mai state cantate così bene, con eguale tornitura musicale, mentre per altre l’unico termine di paragone potrebbe essere il Merritt degli anni d’oro. D’altra parte, i primi ad applaudire freneticamente, come di raro avviene, sono proprio i colleghi musicisti: mentre la platea (non affollata come si sarebbe auspicato, ma comunque popolata da appassionati giunti da ogni dove) esplode in ovazioni, il coro del Maggio Musicale non è da meno, né l’orchestra e lo stesso Parry, che abbraccia con calore Spyres. Il quale ha il dono non indifferente, per di più, di non essere soltanto un cantante straordinario, intelligente, preparatissimo, ma anche un personaggio in grado di ispirare un’immediata empatia, di approcciarsi con naturalezza coinvolgente al pubblico, di accattivarne la simpatia con un gesto o uno sguardo che non sono mai ruffiani o leziosi. Non si può non volere bene a Spyres e non perché lui ce lo chieda, ma perché se lo merita.

Il clima sul palco è dunque quello ideale, in cui un’altissima qualità musicale fa il paio inestricabile con la gioia d’interpretare e condividere questa qualità. Parry dirige con passione, chiarezza e brillantezza, fa apprezzare appieno sia la sinfonia dalla Medea in Corinto (a proposito, quando potremo rivedere in scena quest’opera stupenda?) con la sua orchestrazione sopraffina così come tutti gli intrecci tematici e ritmici di quella di Ermione, solenne e impetuosa come si conviene, nella quale fa bella mostra di sé anche il coro, concentrato, espressivo, stilisticamente inappuntabile come l’orchestra. Se, poi, qualche recitativo viene sacrificato, il piacere di ascoltare per intero, nel silenzio della sala, le interminabili code strumentali delle cavatine di Otello e Agorante non ha prezzo.

Di brano in brano, il concerto è un trionfo fino all’esultanza finale che unisce Spyres, Parry, il maestro del coro Lorenzo Fratini, i complessi del Maggio.

“Se a’ miei voti amor sorride | altro il cor bramar non sa!” La cabaletta di Rodrigo dalla Donna del lago, uno dei ruoli più emblematici del repertorio di Spyres, sigla una serata che resterà nella storia. Beato chi potrà dire “Io c’ero”.

foto Simone Donati - Terra Project - Contrasto


 

 

 
 
 

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