Cent’anni di solitudine
di Pietro Gandetto
Trionfo incondizionato di Mariella Devia per il Roberto Devereux al Carlo Felice di Genova. Efficace concertazione di Francesco Lanzillotta e valido contributo di tutto il cast vocale. Buona la regia di Alfonso Antoniozzi.
Genova, 20 marzo 2016 - Grande ritorno di Mariella Devia nell’Elisabetta I del Roberto Devereux, dopo il debutto nel ruolo nel 2011 in concerto a Marsiglia e in scena a Madrid nel 2015 [Leggi la recensione]. Cosa si può aggiungere ai fiumi di inchiostro versati intorno alle gloriose gesta artistiche di questa signora del (bel) canto? Ben poco, ma qualcosa vogliamo dirla, sgombrando subito il campo da equivoci, ché quando si parla di artisti come Mariella Devia, va tenuta presente quella sottile, ma sostanziale differenza, tra chi canta (recte, legge musica) e chi, come questa signora (e pochi altri), crea arte, dando vita a qualcosa di unico, grazie ad accorgimenti tecnici ed estetici, abilità innate e/o acquisite e professionalità fuori dal comune.
Partendo da questa premessa, allora, passano in secondo piano quelle aggettivazioni didascaliche che spesso si usano, e che però qui si sprecherebbero: dall’eleganza nell’emissione allo smalto timbrico ancora intatto (nonostante la signora canti ormai “da qualche anno”), dal legato del canto all’italiana all’eccellente declinazione delle acrobazie belcantistiche. Per capire di cosa stiamo parlando, basta ricordare le urla isteriche dei fan alla fine di ogni aria, o la vera e propria ovazione da golden age (quelle dei famosi anni ‘50 del secolo scorso) tributate a fine spettacolo. Poco da aggiungere. Brava nella resa dell’umana regina, brava nel far emergere la sanguigna gelosia di una donna stanca di assecondare la ragion di Stato a scapito di una vita normale, brava nella rappresentazione dell’aurea regale e quasi metafisica che la regina Tudor deve comunque avere.
Accanto al maiuscolo contributo di Mariella Devia, registriamo la positiva prestazione di quasi tutto il cast, iniziando da Sonia Ganassi, che ha dato vita a una Sara appassionata, feroce e musicalmente ineccepibile. Continui a fare bel canto senza divagazioni (meno felici), ché lo sa fare bene. Non possiamo che dire bene anche del tenore rumeno Stefano Pop nel ruolo di Roberto. Dotato di una vocalità massiccia, belcantistica ma da vero tenore lirico, non sbaglia una nota e canta con passione, senza perdersi in quelle attitudes di maniera che a volte possono annoiare. Vestiva i panni del Duca di Nottingham Mansoo Kim, in sostituzione di Marco di Felice. Kim si muove bene e ha un vocione imponente, ma dovrebbe, si crede, modularlo meglio e affiancarlo a una morbidezza di suono e di emissione che l’altra sera è purtroppo mancata. Bene il Lord Cecil di Alessandro Fantoni e il Sir Raleigh di Claudio Ottino.
Coprotagonista di questi successi vocali è la concertazione di Francesco Lanzillotta, che ha letteralmente cucito addosso ai cantanti un tappeto orchestrale perfettamente in linea con le loro esigenze e con la partitura donizettiana. Già dall’ouverture emerge la vena melodica, incisiva e seducente di quest’opera. Anche nel prosieguo si è assistito a una direzione scorrevole, caratterizzata dal giusto guizzo e da una buona resa dei colori, delle dinamiche e delle sfumature con cui Donizetti affida agli strumenti l’evoluzione psicologica dei personaggi.
Che dire della regia di Alfonso Antoniozzi? Gli anni di regno pesano su questa Regina come l’enorme manto che le cortigiane sorreggono, e la stanchezza di una vita passata a recitare la parte della principessa di gelo irrompe con il suo dolore e la sua forza sul finale. Da scudo protettivo per sopravvivere all’Anglica terra, irta di insidie (e per non far la fine della madre Bolena), la maschera della Regina si trasforma in una condanna, una prigione dorata (un po’ come accadrà un secolo dopo alla stessa Turandot). In una corte dove tutto è finzione, facciata e apparenza, questa regia sviluppa l’essenza del messaggio di Donizetti, raccontando con disincantata eleganza il gioco delle parti di cui Elisabetta è, al contempo, duce e vittima. Elisabetta si fa umana, diventa pubblico, si scioglie metaforicamente il cerone bianco che le nasconde il volto (e, fuor di metafora, l’anima), e si mostra per quello che è davvero, una donna. E allora, anche grazie alle scelte drammaturiche di Antoniozzi, emerge il valore del sacrificio di una donna che ha rinunciato alla sua vita per il popolo e per la Corona inglese.
Visivamente appaganti le scene di Monica Manganelli, i sontuosi costumi di Gianluca Falaschi e le luci firmate da Luciano Novelli. Bene, ma non troppo, il coro.
Un meritato successo che denota, insieme ad altri, il ritorno del teatro genovese tra i maggiori punti di riferimento della scena lirica attuale.
foto Marcello Orselli