I fantasmi del passato e le ombre del presente
di Claudio Vellutini
Circondata da un cast di lusso (davvero eccellenti Elīna Garanča, Matthew Polenzani e Mariusz Kwiecien), Sondra Radvanovsky offre una lettura interlocutoria, non del tutto convincente, Elisabetta I nel debutto al Met di Roberto Devereux. Qualche dubbio sulla concertazione di Maurizio Benini, mentre l'allestimento di David McVicar è parso adagiarsi su una routine d'alta classe.
NEW YORK, 24/03/2016. È difficile spodestare una regina. Lo sanno bene gli inglesi, la cui storia è segnata da sovrane particolarmente longeve. Prima fra tutte —almeno in ordine cronologico — Elisabetta Tudor, i cui quarantacinque anni di regno furono segnati da numerose congiure. E lo sa bene pure Sondra Radvanovsky, il soprano americano che questa stagione ha affrontato tutti e tre i personaggi della cosiddetta Trilogia Tudor donizettiana al Metropolitan di New York. L’ultima tappa di questo percorso è costituita proprio da Elisabetta I in Roberto Devereux, opera finora mai rappresentata nel massimo teatro d’opera della Grande Mela (Beverly Sills aveva proposto la sua leggendaria interpretazione del personaggio alla New York City Opera).
Inevitabilmente, la Radvanovsky deve fare i conti con le intepretazioni offerte dalle regine del belcanto del passato e del presente, da Leyla Gencer e Montserrat Caballé a Mariella Devia ed Edita Gruberova che, piaccia o meno, per oltre un quarto di secolo è stata la più assidua frequentatrice del ruolo (vale a dire dal suo debutto a Barcellona nel 1990). In varie occasioni, la Radvanovsky ha fatto valere ottime ragioni per reclamare i suoi quarti di nobiltà — ne sono una prova sia la toccante adesione espressiva ai cantabili, sostenuta da un controllo ammirevole delle dinamiche lungo tutta l’estensione vocale, sia l’autorevolezza e incisività con cui la cantante affronta alcuni dei passaggi più drammatici, quali la stretta del Finale del secondo atto, la concitazione dell’apostrofe “Un perfido, un vile”, la cabaletta del duetto con Roberto e perfino la temibilissima cabaletta conclusiva “Quel sangue versato” (macchiata però da un re acuto stiracchiato, intempestivamente troncato come la testa di Roberto evocata nei versi del brano). Ma tale autorevolezza non si riscontra né nei recitativi né nei passaggi più scopertamente virtuosistici. I primi erano decisamente monocromatici e tirati via, annacquati da una pronuncia confusa e spesso trattati come se la Radvanovsky non capisse il significato delle parole cantate. In più di un momento ho rimpianto la miniaturizzazione certosina e ipermanierata della Gruberova, che i recitativi li cesellava pure troppo, ma almeno li faceva vivere e li rendeva parte di una coerente resa di un personaggio allucinato e totalmente disconnesso dalla realtà. Nei passaggi di coloratura, invece, la Radvanovsky era semplicemente impari al compito, anni luce non solo da una Gruberova o da una Sills, ma perfino dalla Gencer. Le diamo atto del coraggio di aver optato per un’esecuzione integrale delle cabalette, ma “Ah ritorna qual ti spero” sembrava un compromesso malamente riuscito con uno strumento poco propenso al canto d’agilità e per di più a mal partito con variazioni di dubbio gusto nella ripresa (in tal senso, lo scettro per me rimane saldamente in mano a Mariella Devia). A sua discolpa, è doveroso notare che, in questo come in altri casi, la Radvanovsky non è stata aiutata dai tempi fin troppo precipitosi staccati dal direttore Maurizio Benini — tempi che la cantante si è sentita in dovere di rallentare durante l’esecuzione. In fin dei conti, quella della Radvanovsky è stata una prova interlocutoria, di grande impatto in molti momenti ma deludente in altri, che non le ha permesso di proporre un ritratto compiuto del personaggio.
Per questo debutto donizettiano, il Met ha pensato bene di circondare la Radvanovsky con un eccellente trio di colleghi. Matthew Polenzani è stato un protagonista a dir poco squisito. Il suo timbro è ideale per il repertorio belcantistico, ricco di colori e sfumature, e vivificato da un accento mobile e sempre espressivo. Grazie al solidissimo bagaglio tecnico, Polenzani non sembra temere né l’intensità delle frasi più accese del personaggio né lesinare pianissimi delicati e aerei. Non gli era da meno Mariusz Kwiecien (Nottingham), che, nonostante qualche timidezza nell’aria di sortita, ha creato un personaggio in crescendo, forte di una vocalità sana e un talento attoriale di prim’ordine. Elīna Garanča era un vero e proprio lusso nella parte di Sara e si conferma uno dei migliori mezzosoprani in circolazione. La sua esecuzione del duetto tra Sara e Roberto è stato un autentico gioiello se non addirittura il momento migliore della serata.
Discrete le parti secondarie, affidate a Brian Downen (Cecil), Yohan Hi (Paggio), Christopher Job (Raleigh) e Paul Corona (Servo di Nottingham).
Anche il regista David McVicar completa il proprio ciclo Tudor al Metropolitan, inaugurato nel 2011 con Anna Bolena. Quello che una volta era considerato l’enfant terrible del panorama operistico britannico sembra essersi adeguato a una comoda routine. McVicar, che ha firmato anche le scene di questo allestimento (i costumi sono a cura di Moritz Jung, le luci di Paule Constable e la coreografia di Leah Hausman), ha proposto una visione dell’opera generalmente tradizionale e prevedibile, con diverse citazioni da letture precedenti. Ne sono un esempio l’ambientazione della vicenda entro una cornice metateatrale o la rimozione della parrucca di Elisabetta nel corso dell’ultima scena. La mano del regista di vaglia, comunque, si lasciava apprezzare sia nell’accurata recitazione di tutti i cantanti (il tallone di Achille di troppi allestimenti operistici), sia in alcuni dettagli degni di nota, quali l’ingresso in scena di Nottingham ubriaco all’inizio del terzo atto o l’agghiacciante collegamento tra l’aria di Roberto e la scena finale di Elisabetta tramite un manichino decapitato rivestito dallo sgargiante abito regale indossato dalla regina nel primo atto.
L’opera, infine, avrebbe meritato una direzione più accurata di quella proposta da Maurizio Benini. La scelta di tempi eccessivamente precipitosi sembrava nuocere sia all’insieme (diverse le scollature tra palcoscenico e golfo mistico), sia alla trasparenza di numerosi passaggi, quali il fugato che apre la seconda sezione della sinfonia, sia alla qualità timbrica dell’orchestra, in particolare degli archi. Analogamente, avremmo desiderato una maggiore cura nella resa delle articolazioni e delle dinamiche, dettagli che sembravano più accennati che propriamente realizzati.
Nonostante questi limiti, la produzione del Metropolitan si lascia apprezzare per i molti pregi e, da ultimo, conferma l’indubbia qualità ed efficacia drammatica di un’opera che negli Stati Uniti è ancora troppo poco conosciuta.
Photo by Ken Howard/Metropolitan Opera